L’avvento degli strumenti e dei suoni elettronici ha inciso una fessura che è andata squarciandosi dalla metà del XX secolo in poi, giungendo oggi a orizzonti distopici in grado di trascendere la realtà sensibile e suggerirne una ad essa parallela e ancora solamente immaginabile.
A questa spinta liminale verso l’ignoto sembra far da bilanciamento un ritorno ai primordi della creazione sonora, un’espressione inconscia e meravigliata in relazione all’eterogeneo potenziale acustico della materia.
Una fascinazione, quella per il suono puro, che risiede nella fisicità quasi palpabile di una frequenza che affiora e si spegne come un’entità viva, reagendo al luogo e all’atmosfera che la racchiudono. Da queste presenze sono abitate “Le Stanze” di Ingar Zach (Dans les arbres, Mural, Trondheim Jazz Orchestra): suoni-oggetto ancestrali che echeggiano dal buio di una notte millenaria. Tonfi sordi di larghe pelli percosse, gong vibranti e tintinnii policromi assorbono liberamente lo spazio e il tempo, inscrivendosi in una drammaturgia tanto lineare quanto misteriosa – per molti versi imparentata con l'antico adagio di Lino Capra Vaccina.
Un micron prima della dissonanza, il clangore strisciante de “L’inno dell’oscurità” è l’antenato dei residuati bellici ricondizionati dagli Einstürzende Neubauten per “Lament”. È la nota più sinistra di questo teatro oscuro dalle risonanze naturali, prima dell’ideale cesura verso l’alba della coscienza, un lume elettr(on)ico accecante che segna lo scarto tra animale e uomo (“È solitudine”).
La chiusa concettuale di questo scarno rito atavico va forse ricercata nell’artwork di Mercedes Zarco, le cui forme aguzze e filiformi potrebbero vedersi sia come concrezioni fossili, sia come fratture che dal nulla assoluto conducono verso un ecosistema complesso e in rapida evoluzione.
16/11/2016