Ok Joseph Arthur, un artista a 360 gradi che da sempre abbiamo seguito, ok Richard Stuverud, pioniere del Seattle Sound con i Fastbacks, ma il vero motivo di curiosità intorno ai RNDM (potete leggerlo “random”) resta la presenza di Jeff Ament, per molti il più “figo” dei Pearl Jam, l’irriducibile skater del Montana.
Per la seconda volta il trio si riunisce con finalità più ludiche rispetto a quelle che muovono i rispettivi progetti principali, affiancando spesso basi elettroniche al piglio alt-rock delle composizioni, ma non tutto gira nel migliore dei modi.
Che l’ispirazione dei Pearl Jam fosse ormai alla frutta era evidente dagli ultimi dischi, ma risulta ancor più irreversibile se l’autore di “Why Go” e “Jeremy” (ma anche di “Low Light” e “Nothing As It Seems”, giusto per citare a caso) si ritrova invischiato in lavori di così scarso spessore.
E pensare che negli anni 90 fece cose egregie persino con il side project dell’epoca, i Three Fish: a questo punto faranno tremare i fan le recenti dichiarazioni di Ament, che lasciano ventilare ipotesi di novità nel sound della band di Eddie Vedder.
Tracce come la title track (con quel “We’re still young” intonato nel ritornello), “Got To Survive” e “Trouble” sono ai limiti dell’imbarazzante per chi ci ha abituati a standard ben più alti. “Stray” è una cosa tipo “Heroes” di David Bowie rifatta male dagli Arcade Fire di “Reflektor”, “Comfortable” ha tutta l’aria di una buona idea abortita anzitempo, “NYC Freaks” diventa persino irritante con quei coretti editati su chitarrine alla Daft Punk che neanche i peggiori Strokes: in confronto il pessimo (ma piacevole) “Comedown Machine” sembra un capolavoro.
“Kingdom In The Sky”, “It’s Violence” e l’acustica conclusiva “Dream Your Life Away” (deve trattarsi di un outtake del Joseph Arthur solista) sono tanto carine quanto drammaticamente innocue.
A salvare il disco dal cestino ci provano il crescendo di “Stronger Man” (arricchita da pianoforte e orchestrazioni) e le trame sostenute di “Stumbling Down” (quelle linee di chitarra semplici semplici non ci dispiacciono affatto), non a caso posta in apertura.
E ci convincono: “Ghost Riding”, non lo buttiamo fra i rifiuti non riciclabili, lo riponiamo in archivio nella mitologica terza fila, quella più in fondo, la più vicina alla parete, la più ostica da raggiungere. Quella dove finiscono i dischi che con tutta probabilità non ascolteremo mai più, e magari dimenticheremo persino di possedere.
14/03/2016