Se amate i Pearl Jam, conoscerete bene l’importanza che ha avuto Jeff Ament nell’economia del gruppo, sia per l’apporto compositivo, sia per la personalità del suo basso, sia per il contributo estetico dei suoi improbabili copricapi.
L’introverso skater del Montana trovò a Seattle una seconda casa, e vi mise radici, militando in alcune fra le migliori band seminali del circuito: i Green River (irripetibile laboratorio condiviso con il compagno di sempre Stone Gossard e due futuri Mudhoney!), i Mother Love Bone (versione embrionale della band di Vedder, allora con lo sfortunato Andrew Wood alla voce) e i cruciali Temple Of The Dog.
Ament non è nuovo ai side project: già a metà degli anni ’90 diede vita ai Three Fish, trio autore di due album lontanissimi dal grunge - il primo dei quali da recuperare assolutamente - che vedeva la partecipazione di Richard Stuverud (ex-Fastbacks) alla batteria e Robbi Robb alla voce ad alla sei corde.
Oggi Jeff ci riprova e, sfruttando le pause tecniche del gigante Pearl Jam, inaugura il progetto RNDM, da leggere come “Random”, confermando Stuverud dietro pelli e tamburi, e reclutando il bravo Joseph Arthur per microfono e chitarre.
“Acts” è stato registrato in soli quattro giorni lo scorso aprile presso gli studi privati di Ament, nel Montana, suonando a briglie sciolte senza troppi steccati, ma riconducendo i frutti di quelle incisioni in dodici tracce compiute e ben confezionate, grazie anche alla sapiente regia di Brett Eliason, già sound engineer proprio con i Pearl Jam.
Non aspettatevi un disco tutto furore e riff, anche se brani come “Look Out!” e “Throw You To Pack” non sono siparietti per educande. Fra questi solchi trova piuttosto dimora un songwriting più maturo, tendente a un American-rock gradevole e cristallino, degno sostituto dell’aggressività di un tempo.
Le spigolosità non mancano, ma le soluzioni più levigate occupano la maggior parte dello spazio, muovendosi dal puramente elettrico alla limpidezza acustica di “New Tracks”, senza disdegnare gli accompagnamenti con l’armonica nella conclusiva “Cherries In The Snow”.
Il fantasma dei Pearl Jam è ciò nonostante sempre dietro l’angolo: basti ascoltare la riuscita “The Disappearing Ones”; ma emergono anche evidenti influenze di Screaming Trees (“Hollow Girl”) e dei primi U2 (“What You Can’t Control”).
Il problema è che, senza la visionarietà di un Vedder o di un Lanegan, non si può che sopperire con mestiere e belle melodie.
E’ comunque un bel sentire, in attesa del ritorno della band madre, previsto (si mormora) per il 2013...
19/10/2012