Esiste un momento, nella vita di una persona, in cui questa realizza di essere entrata in un'altra era personale, di trovare improvvisamente chiusa la porta dietro la quale ha trascorso la propria giovinezza o l'età della consapevolezza adulta.
Non importa il ceto, il credo o il fato: un uscio che si chiude lasciandoci fuori è sempre un'esperienza dolorosa e traumatica.
Ammettendo dunque, ma solo per un attimo, che il grunge sia mai esistito come genere musicale, è irrimediabilmente finito il giorno in cui il suo esponente di spicco ha posto fine alla propria esistenza. Il periodo della sua innocenza, invece, si era chiuso anni prima con la morte per overdose di un cantante sconosciuto dal successo planetario; uno che sul palco si muoveva e parlava come se avesse di fronte un'arena gremita, quando invece capitava che ad ascoltare lui e la sua band ci fosse solo il solito buttafuori annoiato coi tappi nelle orecchie.
Il concetto, più o meno condivisibile, è espresso poco dopo l'inizio di un documentario che dipinge la storia dei Pearl Jam per raccontarne altre cento, che racconta senza idealizzare, celebrare o, peggio ancora, mistificare una realtà fin troppo semplice, lampante.
Andrew Wood muore nel 1990 e porta con sé la sua band, i Mother Love Bone, togliendoli dal semi-anonimato in cui navigavano per consegnarli indirettamente alla storia del rock. Dalla tragedia nascono, seppure attraverso un processo naturalmente impervio e fortunoso, i Pearl Jam, ma è comunque ormai tardi, perché l'aria che si respira a Seattle nel 1990 è già satura di quella decadenza e disillusione che il documentario stesso fatica a decifrare.
L'idea di un documentario sulla band venne tempo fa a Cameron Crowe, giornalista e regista colpevole, tra le altre cose, di aver diretto il controverso "Singles", e a tutti parve una gran cosa poter parlare di un gruppo unico nel suo genere ma che, volente o meno, ha dalla sua una biografia costellata di contraddizioni. "Pearl Jam Twenty" le affronta tutte, col risultato di non approfondirne nessuna.
Lo status di "più grande indie band di tutti i tempi" è già esso stesso un concetto incoerente, che Crowe affronta in maniera leggera senza tentare di risolverlo. La controversia con Ticketmaster resta appesa alle testimonianze dirette dei membri della band e ai filmati dell'epoca ma non viene dato spazio alla ricucitura del rapporto. A quale scopo, poi, sbrigare il succedersi dei vari batteristi in pochi secondi, in un lavoro biografico?
Il grande difetto di "Pearl Jam Twenty" risiede nel fatto che permette che sia la storia a essere funzionale al racconto e alla necessità cinematografica di condensare tutto (inteso veramente come "ogni cosa") in un determinato arco di spazio e di tempo e non viceversa.
Il risultato è comunque godibile, fruibile da un vasto pubblico e non, come letto da più parti, "un prodotto per i soli fan"; non c'è nulla in "Pearl Jam Twenty" che non emozioni chiunque abbia avuto delle cuffie e un walkman, semplicemente perché la pellicola si limita a raccontare senza una vera e propria analisi. Il rapporto conflittuale di Vedder con la notorietà viene enunciato, spiegato dal diretto interessato e confermato da chi lo conosce. Così come la metamorfosi da rock-performer-imprigionato-in-un-atteggiamento-da-timido-chansonnier a timido-chansonnier-imprigionato-in-un-corpo-da-rock-performer ruba gran parte della scena.
Ma non c'è un racconto che vada attraverso il racconto e, se questo può essere visto come un bene in quanto lascia libera interpretazione dei fatti allo spettatore, d'altra parte relega "Pearl Jam Twenty" allo status di collezione di immagini. Che ha il suo risvolto positivo nella già citata assenza di intenti celebrativi e ansie da prestazione adulatoria.
Vent'anni da "Ten" vuol dire vent'anni da un'altra era geologica: vent'anni dalla fine della guerra fredda e dall'inizio di quella del Golfo, vent'anni dalla Moby Prince e vent'anni dalle nostre adolescenze e poco più. Eppure l'immagine che si ricava da "Pearl Jam Twenty" è quella di una band impermeabile alle influenze esterne che genera, attua e segue i suoi stessi processi seguendo degli schemi e parametri rigidi dai confini ben delineati e dalle gerarchie cristallizzate dal tempo.
La Seattle dello sfondo è a prova di stereotipi (con l'aggiunta della splendida "Breadcrumb Trails" degli Slint in avvio) ed è anzi funzionale anch'essa alla stesura del racconto.
"Pearl Jam Twenty" è un documentario da vedere semplicemente perché piacevole e perché lascia aperti indirettamente e subliminalmente un certo numero di interrogativi.
I quali scateneranno nei più pedanti un istinto di caccia da Wikipedia, mentre gli altri, saggiamente, cercheranno le risposte nell'unico punto in cui le hanno nascoste i Pearl Jam: nella loro musica.
29/09/2011