Prendeva il trenino Termini-Giardinetti e raggiungeva il campo Rom "Casilino 900". Nel video di "Tevere Grand Hotel", il primo singolo della sua carriera, Mannarino si mischiava tra la gente, una cosa che gli è sempre riuscita bene, soprattutto quando mescolarsi significava perdersi tra quelli che vengono spesso definiti "ultimi".
Ha sempre cantato per lui e per gli altri, Mannarino, allo stesso modo e con la stessa intensità. Non a caso, alla vigilia dell'uscita del nuovo "Apriti cielo", egli stesso ha dichiarato che l'ispirazione per il disco è arrivata dopo un'intima conversazione con una fan. "Apriti cielo" è per lei e per tutti quelli che, come lei, cercano qualcosa cui aggrapparsi per evadere dalla realtà, anche solo con l'isolamento di qualche istante; per l'artista, forse, nei dolorosi silenzi dopo la rissa, il clamore e la condizionale, "Apriti cielo" è stato un rigagnolo di ossigeno da cui poter riprender fiato.
Dall'ispirazione è venuto fuori l'album più preciso e calcolato della discografia di Mannarino; levigato con sapienza in ogni singolo aspetto, compatto e corposo nella produzione, tanto che vien voglia di mettere le mani avanti anzitempo e di sbilanciarsi senza fronzoli: "Apriti cielo" è il disco migliore di Mannarino.
Una parte del sound che aveva caratterizzato "Bar della rabbia" (2009) e i suoi fratelli minori è rimasto indietro. Alle spalle del musicista il numero di collaboratori è cresciuto proporzionalmente a quello dei fan e alle sonorità manouche e patchanka si sono sostituite quelle sudamericane. I colori del Brasile - che ancora rifulgono negli occhi di Mannarino a seguito di un viaggio purificatore - tingono testi che paiono, stavolta sì, meno impulsivi e più riflessivi. In questo senso, "Apriti cielo" si avvicina ad "Al monte" e può concettualmente considerarsi addirittura una vera e propria appendice. Dopo un percorso di liberazione, quell'uomo e quella donna si trovano in cima al monte, ora guardano in alto e mirano al cielo.
Nei testi e nell'esecuzione ridonda, come nel passato, la figura della donna. "Le rane", ad esempio, è una ballata notturna dal testo larvato, una sorta di nenia che concettualmente e strutturalmente si avvicina più all'alternative-folk dei Marta Sui Tubi che a un qualsiasi precedente dell'artista romano. In "31 lune" - il riferimento più naturale - i siciliani usavano la splendida voce della semi-sconosciuta Sara Piolanti, Mannarino si lascia affiancare da quella di Ylenia Sciacca, anch'essa lontana dagli ambienti più famosi.
Lo scarto tra "Apriti cielo" e tutto ciò che è venuto prima risiede, piuttosto, nel fatto che Mannarino sembra essersi affrancato dalla figura dello stornellatore puro e semplice e di essersi spinto oltre, superando una retorica che era forza e debolezza della sua poetica. Ci sono gli ultimi e gli altri, anche qui, il dualismo semplicistico e raffazzonato del noi-loro, la battaglia quotidiana nei confronti di un nemico che si nasconde - talvolta con un qualunquismo difficile da non biasimare - in ogni cosa che possa attentare la libertà dell'individuo. La svolta, casomai, si traduce in un profilo più basso e meno spregiudicato.
Da "Roma" - una dilatata introduzione alla title track - fino a "Un'estate" - epilogo di quaranta minuti esatti di musica, non c'è quasi traccia dei personaggi che abitavano il presepio del Mannarino che fu; tipi più che individui, da Osso di Seppia a Mary Lou, figli di storie qualsiasi, di vicende che non sarebbero interessate a nessuno, se non fossero state raccontate da uno che in parte le ha vissute e in parte le ha sapute cantare.
"Apriti cielo" è ben vestito, ma al contempo snello, è necessario e maturo, dovuto e contemporaneamente cercato. Si appiccica dal primo ascolto e dura neanche tre quarti d'ora, girando a vuoto in rare occasioni, occasioni che, forse, coincidono proprio con i passaggi più macchinosi, quelli in cui Mannarino si scomoda a descrivere e a spiegare ("La frontiera"), quando invece farebbe meglio a dire meno e a lasciar andare. La parte migliore è la centrale. "Babalù" si copre di versi enigmatici, aperti a interpretazioni differenti, "Ghandi" brilla per il suo modo di essere un divertente e atipico manifesto al pacifismo. È qui che, in certi escamotage vocali ed espressivi, Mannarino strizza l'occhio persino al Vinicio Capossela salmastro di "Marinai, profeti e balene".
"Apriti cielo" funziona alle cuffie e nelle arene; farà rabbrividire qualche seguace all'antica e attirerà chi, fino ad ora, al passaggio di Mannarino, aveva cambiato strada scegliendo di proseguire da un'altra parte.
08/09/2017