Nella discografia quasi venticinquennale di Beck Hansen non c'è spazio per la ripetizione. Da questo punto di vista, ogni nuovo capitolo rappresenta quasi sempre una ghiottoneria per recensori in cerca di contenuti e un'oasi per l'ormai ristretta fetta di pubblico ancora assetata di sorprese musicali.
Personalmente, non ho mai avuto molto chiaro se il percorso artistico del quarantasettenne losangelino fosse frutto di una naturale evoluzione o piuttosto di una talentuosa capacità di pianificare a tavolino il prossimo passo. Mi sono sempre limitato a lasciare che i suoi dischi segnassero la mia generazione negli anni Novanta (io e Beck siamo coetanei) e che continuassero a emettere un certo richiamo anche nel decennio successivo.
L'uscita di "Colors" incide oggi la tredicesima tacca sulla cronologia dei lavori in studio, al termine di una lunghissima gestazione anticipata dal primo singolo "Dreams" addirittura nel 2015. A parziale spiegazione della necessità di questo arco di tempo, Mr. Hansen ha indicato la faticosa ricerca di un punto di equilibrio in un diluvio di idee iniziali, tutte legate all'intenzione di comunicare rilassatezza e positività (nelle parole dell'autore, "scrivere canzoni che ti rendano felice di essere vivo").
Smarcandosi quindi nettamente dalle atmosfere meditative del precedente "Morning Phase", Beck ha optato per un concept semplice, tenendo dritta la barra del timone insieme a Greg Kurstin (co-autore e co-produttore) ma faticando a orientarsi per arrivare in porto (una caratteristica che, a onor del vero, stride un po' con l'obiettivo primario, non fosse altro perché viene spontaneo chiedersi se sia davvero così sincero dover ricorrere a tutto il proprio estro per risultare rilassati e positivi).
Il terzetto iniziale "Colors", "Seventh Heaven" e "I'm So Free" sintetizza subito i tratti dell'operazione: per far sentire "felice di essere vivo" il (nuovo?) pubblico è opportuno diluire il passato in una concentrazione omeopatica. Dal lo-fi degli esordi (quello che aveva fatto sussultare Bob Dylan) all'alt-rock obliquo di "Odelay", dall'alt-country di "Mutations" all'attitudine malinconicamente folk di "Sea Change" (e del suo ideale volume due, "Morning Phase"), dal funk plasticoso e isterico di "Midnite Vultures" al groove serrato di "The Information", tutto diventa una sfumatura, nel mondo pop di "Colors". Anche ammettendo una certa coerenza di fondo (soprattutto nell'evitare di rimanere troppo attaccato alle vecchie medaglie), quello che sorprende non è il metodo, ma l'approccio.
Nella sua spasmodica ricerca di positività, Beck spinge sul ritorno radiofonico tout court, legandosi apertamente a sonorità che strizzano l'occhio alla massa ("No Distraction", "Up All Night", "Square One") e guardandosi bene dall'evitare la risacca di momenti più introspettivi (che lambisce solo "Fix Me").
"Colors" suona perfetto come playlist in cerca di immediatezze care ai Coldplay, contemporaneità à-la MGMT, beatmaking memore di Danger Mouse, e rimane sostanzialmente avulso dai format sonori attraverso i quali Mr. Hansen ha fatto scuola, sconfinando qua e là in momenti superficiali (su tutti, "Wow").
Coraggiosa o meno, si tratta di una scelta che soffia sul fuoco degli interrogativi, il più importante dei quali riguarda la sensazione di avere a che fare con un esercizio di stile: ammiccante ma mai davvero sexy, utile alla classifica ma confinato all'idea di dover dimostrare qualcosa. Ed è la prima volta che Beck sembra averne bisogno.
27/10/2017