Con il breve "OUÏ" avviene, finalmente, il ritorno pressoché totale alla lingua madre, ispirazione di tutte le più geniali estrosità di Camille: filastrocche, scioglilingua ("Lasso"), rhymes su ritmi di derivazione popolare ("Les Loups") sono gli strumenti essenziali per lanciarsi in altre vertiginose arrampicate canore a perdifiato.
Où va l'eau, où va l'âme et la sève et les larmes éva-nou-ies (nous oui)
Aller où, aller là, hallelujah, aller où il est ou-i lui
("Fontaine de lait")
Lo spirito (e il timbro) bambino di Camille rivive la sua primavera in queste registrazioni effettuate in un monastero d'epoca medievale di Avignone, nonostante le sovraincisioni e gli elementi percussivi finiscano per qualificare "OUÏ" come un classico lavoro in studio.
Camille gioca di nuovo a creare polifonie con se stessa, sfruttando la cadenza e i contrasti fonetici delle sillabe per architettare basi che ricordano le lallazioni primitiviste di Meredith Monk ("Langue"), sopra le quali potersi poi ulteriormente sdoppiare in altri "io" più delicati o più acidi - un range che si spinge sino al rantolo grottesco di Diamanda Galás ("Twix").
"Je ne mâche pas mes mots": parole in libertà scorrono e dànno linfa vitale all'arte (perduta?) della chanson, una persistente seduzione che - specialmente in casi come questo - travalica i suoi confini geografici e culturali alla conquista di chiunque vi presti orecchio.
(13/06/2017)