Tuffarsi nel nuovo disco di Fever Ray non è un'impresa facile. "Plunge" spaccherà i fan di Karin Dreijer. Chi ha amato i Knife di "Shaking The Habitual" apprezzerà una sorprendente confluenza verso quelle forme di femminismo surrealista, di marca queer, che esiste realmente soltanto a Stoccolma, Berlino e in qualche esclusivo college inglese e americano devoto ancora al culto totalitario del post-strutturalismo e dei Cultural Studies.
Si sa, tutti gli estremismi, di qualsiasi segno politico, gender e colore, aiutano a vincere la noia della vita moderna, specie quando sono estremizzati sino ad assumere toni surreali e quasi auto-parodistici nelle loro trasposizioni in ambito artistico e musicale.
Per entrare nello spirito del nuovo lavoro di Fever Ray (disponibile in versione fisica solo il 23 febbraio del 2018) è utile leggere i testi. Ad esempio, in "This Country" la Dreijer canta "Free abortions/ And clean water" e "Every time we fuck we win/ This house makes it hard to fuck/ This country makes it hard to fuck!". Anche nel manifesto che accompagna il lavoro, intitolato "Listen!" e scritto in collaborazione con l'artista Hannah Black, troviamo frasi dello stesso tenore: "Sex is work, love is work, work is sex, work is love, the magical conversion of 'is' given impossible power by its delivery in music." (...) "I'm looking for a girl who stands 10 feet tall and has teeth like razors... I'm looking for a girl to affirm my reality, or cancel it".
Sembrano un po' dei deliri scritti da Valerie Solanas ma trasposti nell'era dell'attivismo da social media e delle serie tv come "American Horror Story". È proprio a un'estetica dark weird horror, postmoderna e patinata in Hd (un po' come quella vediamo nelle ultime stagioni di AHS) che ritroviamo sia nel teaser trailer dell'album, sia nel video di "To The Moon And Back", dove l'artista canta frasi del tipo "I want to run my fingers up your pussy!", mentre viene ingozzata di cibo ed è oggetto di una delicatissima sessione di pissing in maschera.
Come si sarà capito, riesumato dopo otto anni, il progetto "Fever Ray" appare molto distante dal suo primo lavoro, anche se nella traccia "Mustn't Hurry" c'è una flebile eco del passato. Ciò non è necessariamente un male, a patto che i fan della vecchia Fever Ray siano disposti ad accettare un nuovo corso che strizza l'occhio a sonorità hi-tech "accelerazioniste" che ricordano un po' certe cose della Janus, come alcuni lavori dell'amazzone bionda svedese Kablam (il circolo di cucito evidentemente è sempre lo stesso), ma trasposta in salsa (avant)pop. Esemplificativo della svolta, ad esempio, è il brano "IDK About You", che sembra guardare con interesse anche a cose alla Not Waving e alle produzioni recenti della Diagonal di Powell, label sempre attenta all'evolversi veloce ed evanescente delle mode giovanili.
E se il lontano esordio strizzava l'occhio ad atmosfere decisamente più dark-oriented, ammassando in una sorta di cripta le fascinazioni electro della band madre, in questo atteso ritorno la musica tende qui e là a sporcarsi di "pop" retrò dei sempre più saccheggiati 80. Si prenda da esempio la stessa title track con i suoi richiami a certe fascinazioni orientaleggianti in perfetta scia Sakamoto, il tutto fatto girare più velocemente e per l'occasione senza proferire parola alcuna.
Inoltre, bisogna aggiungere che da un lato la stretta vicinanza a tematiche scottanti di natura sessuale eleva in un certo qual senso l'intero progetto, mentre dall'altro lato non si possono non fare i conti con una rivisitazione forzata di andazzi alla Knife, in particolar modo quelli dell'esordio omonimo. Il singolo di lancio "To The Moon And Back", con il suo refrain di facile presa e il suo serpeggiare electro, non fa altro che confermare tale sospetto, al netto di un potenziale avanzamento mainstream in vista.
La faccenda, però, si fa più intensa ed emozionante dinanzi alla meravigliosa e tristissima ballad "Red Trail", con tanto di archi mediorientali e climax plumbeo da tappeto. Le cose tornano poi ad affievolirsi con il battito sincopato e androide della successiva "An Itch", nella quale sembrano specchiarsi nel medesimo punto l'amica Janine Roston, aka Planningtorock, e la dimenticata Sir Alice.
Insomma, "Plunge" alterna manifestazioni dissacranti e una scrittura incentrata su tematiche contemporanee ben articolata, a impasti sonori dall'effetto talvolta più che prevedibile. Un mix che per certi versi colpisce e seduce, ma per altri non meno importanti tende ad alimentare qualche reiterazione di troppo.
04/11/2017