Knife

Knife

Una lama nel buio

Atmosfere oscure e torbide, arrangiamenti tribali e gelidi al tempo stesso, con sintetizzatori acuti e incalzanti in opposizione alle melodie vocali, a loro volta filtrate e disumanizzate, al punto da sembrare voci di fantasmi. E' la ricetta dell'ensemble svedese che ha inventato un nuovo approccio alla musica elettronica, ulteriormente evolutosi nell'ultimo "Shaking The Habitual"

di Veronica Rosi

In un mondo fatto di influenze, di rimandi, di citazioni, quando non proprio di revival spudorato, i Knife sono tra i pochissimi gruppi che non solo non sono mai somigliati a nessuno, ma non sono neppure mai stati imitati da nessuno.

Mi spiego meglio. Dopo oltre una decade di attività, i Knife si candidano nell’olimpo dei binomi sacri dell’elettronica, insieme ai Daft Punk, Chemical Brothers, Boards of Canada, Air e compagnia bella. I Knife sbalordiscono critica e pubblico (Resident Advisor mette Silent Shout tra i migliori 10 dischi di tutti gli anni Zero) con un suono inconfondibile, eppure in costante evoluzione. Partiti con i pulsanti sogni adolescenziali raccolti in The Knife, i fratelli Olof e Karin Dreijer diedero voce ai ventenni tristi e ribelli di Deep Cuts, li fecero crescere nella rabbia gelida di Silent Shout, e invecchiare nella dolorosa ribellione dell’ultima prova, Shaking The Habitual. Ma andiamo con ordine.

Il primo omonimo, autoproduzione del 2001 sostanzialmente ignorata dai più, mostra già i tratti spigolosi dei Fratelli Dreijer. Tre elementi: 1) Cassa dritta, bassa, techno. Olof è un dj e il ritmo è essenziale in tutte le sue canzoni. 2) La prima voce: quella agrodolce di Karin, che a volte grida, a volte sussurra, sempre ipnotizza con delle melodie che, quando non accattivanti e pop, sono sempre certamente orecchiabili. Altrettanto non si può dire dei testi, tra il delirante, lo scioccante e il sarcastico. 3) La seconda voce, quella semiumana dei sintetizzatori: è questo terzo elemento che completa i Knife e li rende difficilmente imitabili. I sintetizzatori non sono mai gli stessi. A volte seguono la melodia principale, a volte la sfidano. Sono l’espressione principe della creatività compositiva della band e trasportano l’ascoltatore in un turbinio di emozioni poco prevedibili. Se alcuna musica sembra essere fatta per lasciarvisi trasportare, le canzoni dei Knife conducono l’ascoltatore in un punto ben preciso, dove magari non vuole neppure andare.
The Knife è un disco apparentemente giocoso, con momenti travolgenti come “Kino”, seguiti da nenie agghiaccianti come “I Just Had To Die” (pesanti riferimenti alla pedofilia come: “Watching schoolgirls on their knees”). I Knife sono dichiaratamente una band “politica”. Anche testi e melodie apparentemente leggeri nascondono messaggi di denuncia sociale. Non ci sono argomenti scomodi. Perversioni sessuali in primis, ma anche socialismo puro, protesta in nome dell’eguaglianza sociale (in questo disco che appare per la prima volta il verso “and we raise our head for the color red”), poi reso famoso dalla hit del disco successivo. The Knife è un gioiellino di disco. Nonostante alcuni pezzi acerbi, è la perfetta introduzione al suono dei “fratelli coltelli” e forse il loro disco più eterodosso.

KnifeDeep Cuts esce due anni anni dopo, e fa il botto grazie a due singoli eccezionali: “Heartbeats” e “You Take My Breath Away”. Karin e Olof dichiarano alla stampa di aver voluto fare un disco molto accessibile per lanciare il loro messaggio politico a quante più persone possibile. Il risultato, forse inaspettato, è uno dei più bei dischi electro-pop della storia. “Heartbeats” è un instant-classic, un inno generazionale ballato sia nelle camerette che nelle discoteche, e li trasforma da uno sconosciuto ensemble svedese a fenomeno mondiale. Ascoltare la versione acustica di “Hearbeats”, come coverizzata dall’indie-intimista José Gonzales, per toccare con mano la qualità di questa canzone, la cui melodia è assolutamente senza tempo e potrebbe essere stata scritta da Neil Young o Simon & Garfunkel. Neppure i Daft Punk possono vantare un inno universale come “Heartbeats”. E il bello deve ancora venire.
Deep Cuts, nonostante abbia un chiaro tema eighties sia nell’immaginario (indimenticabile il retro copertina con Karin e Olof travestiti da allenatrice/ginnasta di Seul ’88) che nei suoni, è un album eclettico, ricchissimo di canzoni (ben 17) e di idee. Difficile scegliere tra così tante perle, ma va menzionato il terzo singolo “Pass This On”, con un falsetto da brividi e uno dei più bei video mai visti, la drag queen Rickard Engfors che si esibisce per la tristissima riunione della locale squadra di calcio.
Deep Cuts alterna momenti di pura poesia (“This Is Now”, “Rock Classics”), attacchi di denuncia sociale (vedasi la pesante critica alla polizia di “The Cop”) e vere e proprie chiamate alle armi (“Listen Now”). In questa confusione di synth anni 80, atmosfere oniriche e techno incalzante, i Knife dipingono un quadro estremamente accurato di una generazione intelligente, ma annoiata, repressa e profondamente a disagio in un mondo ordinato e borghese. Deep Cuts vuole essere il coltello che rompe il velo di una vita scontata, e non senza dolore. Musicalmente, è un disco che sembra sempre fuori moda eppure riesce a stupire e sedurre ad ogni ascolto. Se vi piacciono i Knife, Deep Cuts è il disco del colpo di fulmine. Come canta Karin in “You Take My Breath Away”: “I heard you for the first time on the radio/ When I was going somewhere in a car/ You touched my heart, like a knife that’s very sharp”.

KnifeI fratelli Dreijer reagiscono alla celebrità portata da Deep Cuts in maniere estrema. Si chiudono per mesi in una chiesa abbandonata, e registrano Silent Shout, che esce nel 2006. Mettono una nuova maschera, letteralmente: appaiono incappucciati nella neve con lunghi becchi neri, come lugubri maschere veneziane. È subito ovvio che i toni fluo di Deep Cuts sono ben lontani dai quelli oscuri e spaventosi di questo terzo disco, considerato l’album della maturità e il loro capolavoro.
Silent Shout è un disco musicalmente molto complesso. Gli arrangiamenti sono tribali e gelidi insieme, con sintetizzatori acuti e incalzanti in opposizione alle melodie vocali, che a loro volta sono filtrate e disumanizzate, tanto da sembrare voci di fantasmi. Le canzoni si dilatano, abbandonando forme e ritornelli e lasciando spazio a marce digitali. C’è qualche pezzo che potrebbe essere un singolo, ad esempio “Neverland”, “Marble House” e “Like A Pen”, ma tutte le canzoni sono emotivamente “pesanti”. Inni, sì, ma a qualcosa di misterioso, crudele e ineffabile. Silent Shout è la de-voluzione della generazione di Deep Cuts. I giovani sono ora trentenni tristi che vivono in un mondo grigio, alla ricerca di nuovi meccanismi di evasione, ma c’è solo... la Tv (“From Off To On”). I testi sono criptici, a tratti inquietanti. “Spending time with my familly/ Like the Corleones” annuncia trionfalmente Karin in “One Hit”.
Silent Shout non è un disco per tutti i palati. Tutto di un colpo risulta lungo e impegnativo. Il classico “bello ma non lo ascolterò mai più”, insomma, e molti ascoltatori trovano rifugio nel più delicato album di Fever Ray (Karin solista), che ricorda una versione edulcorata di Silent Shout. Ma, ai più attenti e coraggiosi, questo disco regala orgasmi acustici (uno a caso: il basso gommoso di “We Share My Mother’s Health”) e rara potenza sonora, da far aggrovigliare le budella.

I Knife spendono l’estate del 2006 a presentare Silent Shout dal vivo, con effetti visivi di Andreas Nillsson. L’esperienza l’ho fatta dal vivo ma non la racconto, la potete vedere in “Silent Shout - An Audio-Visual Experience”. Dico solo che mentre i Daft Punk per l’“Alive Tour” si mettono le tute spaziali e suonano nella piramide gigante, ai Knife basta una calzamaglia e qualche trucco 3D per fare impressione.

Poi, il silenzio. I Dreijer si separano. Karin si concentra su Fever Ray, Olof sulla sua carriera di dj. Tornano insieme brevemente nel 2010 per la colonna sonora dell’opera Tomorrow In A Year, insieme alla svedese Janine Rostron/Planningtorock e Matthew Sims/Mount Sims. Un album spurio, con Olof che compone musiche ostiche ispirate ai suoni degli animali selvatici, e Karin che presta la voce solo marginalmente. Un ascolto decisamente difficile, riservato ai fan completisti o ad appassionati di opera sperimentale.

KnifeSembra finita, fino al teaser video di quest’anno: “Music can be so meaningless/ We had to find lust/ We asked our friends and lovers to help us”. Olof e Karin stavolta non mettono neppure le maschere. Spariscono del tutto, interpretati da attori che sembrano usciti da un film di Lynch, un esercito chiamato apposta per scuoterci dal quotidiano: Shaking The Habitual, appunto, è il quarto disco dei Knife e il disturbante successore di Silent Shout.
Il primo singolo, “Full Of Fire”, parla per tutti: forma canzone abbandonata del tutto, marce techno-psichedeliche, e un approccio del tutto nuovo, dichiaratamente sperimentale, al suono, dove chiara è l’influenza delle ultime produzioni di Olof Dreijer (imitare con i sintetizzatori i versi degli uccelli dell’Amazzonia) e degli ipnotismi cibernetici della Rostron. Un album dove “la distinzione tra strano e normale è cancellata”, e gli strumenti vengono usati in maniera non convenzionale. L’intento è, come sempre politico: come suonerebbe una canzone di protesta, oggi? Il risultato è un disco che attacca le convenzioni da molteplici angoli: quello compositivo, quello lirico, e quello visivo: il booklet che lo accompagna presenta una inquietante vignetta chiamata “End Extreme Wealth” che dipinge persone ricche come malati cronici.
I video che accompagnano i singoli “Full Of Fire” e “A Tooth For An Eye” puntano il dito sul conformismo sessuale e sull’ipocrisia delle politiche sociali. Insomma un disco sovversivo, e se non vi sentite altrettanto sovversivi, non vi piacerà.

Ancora una volta, però, la musica dei Knife riesce a “toccare il cuore come un coltello molto affilato”. Impossibile restare indifferenti.

Di ben altra fattura, anche se orientata su piani di fondo vicinissimi al gruppo madre, è l'avventura solista di Karin Dreijer sotto il moniker Fever Ray e cominciata nel 2009 con l'esordio omonimo. Fever Ray, uscito per la Cooperative Music/V2, è davvero un bignami del lato più oscuro del mondo scandinavo. Un mistero sottile, dai risvolti multiformi. Ad aprire le dieci tracce (per un totale che sfiora la cinquantina di minuti) provvede il vibrante e immaginifico drone notturno di "If I Had A Heart", che si snoda tra voci filtrate e atmosfere cupe. La successiva "When I Grow Up", in odor di Goldfrapp periodo "Felt Mountain", cambia registro, tra dolcissime trame di synth e la particolarissima voce di Karin. E se "Dry And Dust" accenna aperture sintetiche, "Seven" consuma la perfezione-pop: dipanandosi tra docili beat tribaleggianti e la voce sognante incastonata su vaporose strutture di synth, si addolcisce sempre più, fino a scomparire oltre l'orizzonte. 
Il trip-hop non è poi molto lontano: ascoltare "Concrete Walls" equivale a tornare indietro d'una quindicina d'anni, al fascino notturno di "Protection" dei Massive Attack. E fra richiami dark e partiture elettroniche di una dolcezza celestiale, si colgono i sapori d'un fascino lontano: è il caso della disperata "I'm Not Done", nella quale Karin urla la sua disperazione (le sue liriche sono spesso improntate all'invettiva politica) in un climax sonoro tanto semplice quanto trascinante. E se l'insipida "Keep Streets Empty For Me" si candida a nota stonata del disco, nella grintosa chiusura di "Coconut" la nordica vichinga, rinforzata da una sezione ritmica decisamente più sostenuta, sfoggia un epilogo vibrante.

Fever Ray racconta dunque il nord, le sue articolazioni, i suoi paesaggi, i suoi umori. Giocando a colpi di sy nth, chitarre effettate e tastiere in abbondanza, disegna un quadro vivido e vitale, che rivitalizza suoni di un tempo ormai perduto. Ne scaturisce un lavoro senza tempo, un lampo a ciel sereno di una bellezza accecante.

Otto anni dopo Karin ci riprova con Plunge, e chi ha amato i The Knife di “Shaking the Habitual” apprezzerà una sorprendente confluenza verso quelle forme di femminismo surrealista, di marca queer, che esiste realmente soltanto a Stoccolma, Berlino e in qualche esclusivo college inglese e americano devoto ancora al culto totalitario del post-strutturalismo e dei Cultural Studies. Per entrare nello spirito del nuovo lavoro di Fever Ray è utile leggere i testi. Ad esempio, in “This Country” la Dreijer canta “Free abortions/And clean water” e “Every time we fuck we win/This house makes it hard to fuck/This country makes it hard to fuck!”. Anche nel manifesto che accompagna il lavoro, intitolato “Listen!” e scritto in collaborazione con l’artista Hannah Black, troviamo frasi dello stesso tenore: “Sex is work, love is work, work is sex, work is love, the magical conversion of ‘is’ given impossible power by its delivery in music.” (…) “I’m looking for a girl who stands 10 feet tall and has teeth like razors… I’m looking for a girl to affirm my reality, or cancel it.”. Sembrano un po’ dei deliri scritti da Valerie Solanas ma trasposti nell’era dell’attivismo da social media e delle serie tv come American Horror Story. È proprio a un’estetica dark weird horror, postmoderna e patinata in hd (un po’ come quella vediamo nelle ultime stagioni di AHS) che ritroviamo sia nel teaser trailer dell’album, sia nel video di “To the Moon and Back”’, dove l’artista canta frasi del tipo “I want to run my fingers up your pussy!”mentre viene ingozzata di cibo ed è oggetto di una delicatissima sessione di pissing in maschera.
Come si sarà capito, riesumato dopo otto anni il progetto Fever Ray appare molto distante dal suo primo lavoro, anche se nella traccia “Mustn't Hurry” c’è un flebile eco del passato. Ciò non è necessariamente un male, a patto che i fan della vecchia Fever Ray saranno disposti ad accettare un nuovo corso che strizza l’occhio a sonorità hi-tech“accelerazioniste” che ricordano un po’ certe cose della Janus, come alcuni lavori dell’amazzone bionda svedese Kablam (il circolo di cucito evidentemente è sempre lo stesso), ma trasposta in salsa (avant)pop. Esemplificativa della svolta, ad esempio, è il brano “IDK About You” che sembra guardare con interesse anche a cose alla Not Waving e alle produzioni recenti della Diagonal di Powell, label sempre attenta all’evolversi veloce ed evanescente delle mode giovanili. Inoltre, bisogna aggiungere che da un lato la stretta vicinanza a tematiche scottanti di natura sessuale eleva in un certo qual senso l’intero progetto, mentre dall’altro lato non si possono non fare i conti con una rivisitazione forzata di andazzi alla Knife, in particolar modo quelli dell’esordio omonimo. Il singolo di lancio “To The Moon And Back” con il suo refrain di facile presa e il suo serpeggiare electro, non fa altro che confermare tale sospetto, al netto di un potenziale avanzamento mainstream in vista.
La faccenda, però, si fa più intensa ed emozionante dinanzi alla meravigliosa e tristissima ballad “Red Trail”, con tanto di archi mediorientali e climax plumbeo da tappeto. Le cose tornano poi ad affievolirsi con il battito sincopato e androide della successiva "An Itch", nella quale sembrano specchiarsi nel medesimo punto l'amica Janine Roston, aka Planningtorock, e la dimenticata Sir Alice. Insomma, Plunge alterna manifestazioni dissacranti e una scrittura incentrata su tematiche contemporanee ben articolata, a impasti sonori dall’effetto talvolta più che prevedibile. Un mix che per certi versi colpisce e seduce, ma per altri versi non meno importanti tende ad alimentare qualche reiterazione di troppo.

L’onda lunga di quelle canzoni si spinge due anni più tardi fino alla pubblicazione di Plunge Remix, una sontuosa collezione che espande il già poliedrico ventaglio stilistico messo in scena dalle versioni originali. Dieci remix nella versione in vinile, diciotto su quella in Cd, ben 21 nell’emissione digitale, il risultato del lavoro svolto da 18 dj/producer, fra cui si rintracciano le presenze di Bjork (nell’ossessiva rilettura di “This Country Makes It Hard TO Fuck”), di Paula Temple (al lavoro in due esplosive revisioni del medesimo pezzo) e del fratello di Karin, Olof Dreijer - l’altra metà dei Knife - in “Wanna Slip”. Si resta mediamente più aderenti alla scrittura dell’autrice, lasciando ampi spazi sia alle parti vocali che all’atmosfera tribale, anche se in alcuni casi ad emergere possono essere passaggi più urban (è il caso di Bunny Michael su “IDK About You”), spezzettati, oppure con una cassa sparata forte in quattro quarti, come nel caso delle due nuove reissue di “I’m Not Done”, l’unico brano ripescato dall’omonimo esordio solista datato 2009, remixate per l’occasione dalla stessa Fever Ray.
Come sempre accade in questi casi, scaturiscono nuove opportunità per le tracce rimodellate, fra le quali le più trattate risultano “Mustn’t Hurry” (ben cinque versioni) e “To The Moon And Back” (quattro). Resta inalterato il messaggio queer delle composizioni della musicista svedese, così come non ne escono svilite le radici ancestrali. La componente sensuale acquisisce invece nuovo vigore, in versioni ulteriormente potenziate, perfette per essere programmate nei migliori club del globo, specie in quelli in grado di porsi con un atteggiamento più "avant".

*Contributi di Alberto Asquini (Fever Ray), Giuliano Delli Paoli (Shaking The Habitual, Plunge), Marco De Baptistis (Plunge), Claudio Lancia ("Plunge Remix")

Knife

Discografia

The Knife(Rabid, 2001)

7,5

Deep Cuts (Rabid, 2003)

7,5

Silent Shout(Rabid, 2006)

8

Tomorrow In A Year (Rabid, 2010)

7

Shaking The Habitual (Rabid, 2013)

7,5

FEVER RAY
Fever Ray (V2, 2009)

7,5

Plunge(Rabid, 2017)6
Plunge Remix (Rabid, 2019)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Heartbeats
(videoclip, da Deep Cuts, 2003)

 

We Share Our Mothers Health
(videoclip, da Deep Cuts, 2003)

Pass This On
(videoclip, da Deep Cuts, 2003)

Like A Pen
(videoclip, da Silent Shout, 2006)

Marble House
(videoclip, da Silent Shout, 2006)

 

Full Of Fire
(videoclip da Shaking The Habitual, 2013)

A Tooth For An Eye
(videoclip da Shaking The Habitual, 2013)

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