Ora, tre anni dopo, siamo sempre in presenza di una band il cui unico componente effettivo è il leader, che ha però chiamato con sé una line-up molto simile a quella del lavoro precedente. Soprattutto, viene proposto un suono diverso da quanto mostrato in tutti gli album precedenti, che un po' richiama le varie fasi dei Pains finora, e un po' cerca di aprire nuove strade.
Non mancano, infatti, né le volute imperfezioni sonore che caratterizzavano i primi due dischi, ma nemmeno la pronunciata pulizia e le armonie musicali e vocali che sono alla base dell'ultimo lavoro. Nello specifico, una sezione ritmica alle soglie della ruvidezza e una parte chitarristica che riesuma i riverberi andati perduti, si integrano con tastiere levigate e una parte vocale dolce e spesso caratterizzata da armonie tra una voce maschile e una femminile. Di certo, non si può dire a Berman e ai suoi che non abbiano osato, visto che questo tipo di insieme poteva senz'altro sfociare in un pasticcio indefinito.
Il merito principale del disco, invece, è proprio quello di aver saputo creare un suono unitario e coerente nonostante il rischio di incompatibilità tra le diverse nature degli elementi utilizzati. L'integrazione tra essi può indubbiamente spiazzare all'inizio, con un effetto che è lo stesso di quelle pietanze agrodolci nelle quali entrambe le caratteristiche sono molto in evidenza; poi, però, col crescere degli ascolti si nota che la composizione del puzzle è in realtà organica e ben congegnata, e, di conseguenza, viene facile apprezzare anche altre caratteristiche del disco come la qualità melodica e la varietà.
La prima di esse non è mai stata messa in dubbio quando si parla dei Pains: Berman ha iniziato sfornando subito melodie ispirate ed efficaci, e non ha ancora smesso di farlo. Siamo, come detto, al quarto disco e la sensazione di freschezza e sensibilità data dalla parte strettamente compositiva non viene minimamente meno, e anche con il suono di ora, indubbiamente il più stratificato e relativamente pesante con cui l'autore abbia avuto a che fare, le canzoni sono ingranaggi senza intoppi, e questo è merito non solo della produzione sonora, ma anche delle melodie in sé, adattissime alla nuova svolta stilistica e capaci di svelare appieno la personalità di Berman.
La varietà si manifesta nel fatto che si passi da una "My Only" compassata e incisiva, a una "Anymore" dal suono particolarmente dinamico, con una strofa essenziale e le morbide esplosioni di chitarra che colpiscono al momento giusto nel ritornello; da una "When I Dance With You" dal ritmo incalzante e dai riff di tastiera, che contribuiscono a rendere il tutto particolarmente trascinante, a una title track ariosa e dal ritmo meno in evidenza ma che sa, però, infilarsi sotto la pelle dell'ascoltatore; da una "So True" che è la canzone dei Pains più adatta di sempre a eventuali performance in grandi spazi, a una "The Cure For Death" che mantiene l’attitudine pop del resto del disco, ma è piuttosto introspettiva e porta con sé una malcelata amarezza.
Probabilmente, in termini di qualità assoluta, il pop senza compromessi del disco precedente si lascia preferire, ma qui vanno applaudite l'audacia e la capacità di aver saputo trovare un equilibrio partendo da punti difficili da conciliare. Questa evoluzione produttiva-compositiva può aprire un mondo molto ampio per il prosieguo del percorso dei Pains, che da qui possono davvero prendere qualunque strada e anche decidere di osare ancora di più in futuro.
(20/10/2017)