Va in questa direzione il quarto Lp dell'iraniano Siavash Amini, dopo alcuni lavori improntati al non facile controllo della materia prima drone/noise. Sin dal 2014, con "What Wind Whispered To The Trees", il mastering dei suoi album è stato affidato all'orecchio colto e sensibile di Lawrence English, e con "TAR" questo legame professionale sembra arrivi a far collimare le reciproche estetiche. In altre occasioni Amini si è avvalso di strumenti classici per fornire un complemento melodico alle dense colate dei bordoni elettronici, ma come nel recente apice espressionista "Cruel Optimism" il violino (Nima Aghiani) e il contrabbasso elettrico (Pouya Pour-Amin) sono qui parte integrante del cinereo panorama concepito dal sound artist.
I quattro movimenti attraversano gradazioni variabili di oscurità, dove il languido archetto di "A Dream's Frozen Reflection" è come voce di una musa dolente che indica la strada verso i fiumi di catrame: qui la grana spessa del contrabbasso ricorda i grandi quadri a tecnica mista di Anselm Kiefer, waste lands tempestate di frammenti organici che da vicino ispessiscono la superficie dall'apparenza astratta, mentre da lontano creano l'effetto di una veduta soverchiante, a perdita d'occhio.
Decisamente più arioso lo scenario di "Face On The Sand", seppur scosso da ondate elettriche - eco delle sponde infernali di Dirty Knobs - al confine con l'ultimo brano. L'eloquente "The Dust We Breathe" si apre su abrasioni in stile Jefre Cantu-Ledesma ma sfuma quasi subito in un largo statico che conduce verso una luce redentrice, l'eterea distensione del finale.
La dark-ambient di Amini, insomma, è attraversata anche da bagliori di speranza, così che i più tetri sentieri di "TAR" appaiono come una prova da superare necessariamente in vista di un sollievo che proprio per questo ci raggiunge con ancor più intensità.
(10/06/2017)