Si fanno carico di una gloriosa tradizione rock'n'roll, i Molochs: una band che suona alla maniera dei Modern Lovers di Jonathan Richman, che sogna di incontrare i Velvet Underground e che prende il nome da un racconto di Allen Ginsberg ("Howl").
A tre anni dall'esordio, Lucas Fitzsimons e compagni ritornano nei paraggi del garage-pop tinto di psichedelia di "Forgetter Blues", mettendo in chiaro le potenzialità del gruppo di Los Angeles (anche se il leader proviene dall'Argentina).
Accordi cristallini, tempi serrati, strutture chitarristiche che incrociano i Byrds e i Beatles ma anche gli Only Ones e i Television, assumendo contorni spazio-temporali non necessariamente definiti o definibili.
"America's Velvet Glory" mette in fila una serie di canzoni contagiose e variegate al punto da suonare come una surreale antologia di oscure band psych-pop, una specie di "Nuggets" versione demo. Sono undici bignami di emozioni musicali senza tempo, il cui fluire dinamico e scanzonato è impreziosito da una serie di rimarchevoli intuizioni armoniche. "The One I Love" ruba accordi a "Ticket To Ride", "All I Really Want To Do" e "Video Killed The Radio Star" restando comunque fresca e autentica; "No More Cryin'" recupera il sound primigenio dei Rolling Stones con un ritmo irresistibile che fa agitare i piedi e il cuore, mentre "Charlie's Lips" rispolvera le nuance psichedeliche del beat evocando sia i Beatles di "Rain" sia i Rolling Stones di "Child Of The Moon".
Forte di tutte queste nobili influenze, i Molochs evitano una celebrazione eucaristica dei sixties conservando un profilo pagano e primitivo. L'attitudine è quella del punk ("New York"), l'energia è quella del beat ("You And Me"), la poesia è quella del folk-psych ("Little Stars") e l'irriverenza è quella del garage-pop ("Ten Thousand"), ma soprattutto la freschezza e la genuinità della musica è solo di Fitzsimons e compagni. "America's Velvet Glory" è un affascinante e accattivante déjà-vu. Lasciatevi tentare.
05/06/2017