Intitolato come uno dei personaggi del romanzo wuxia “The Smiling, Proud Wanderer” (lo splendido fotogramma della copertina ritrae Brigitte Lin che ne ha vestito i panni nell'adattamento cinematografico), “Dongfang Bubai” riprende i tratti narrativi che hanno portato alla costruzione del soggetto, sfruttandoli come impalcatura concettuale per i sette brani che costituiscono il lavoro. Laddove il personaggio si è evirato per acquisire delle abilità tali da renderlo un combattente provetto e temibile, allo stesso modo l'operazione compiuta da Tzusing porta a un rimodellamento della sua musica, la quale perde alcune delle sue caratteristiche più claustrofobiche e muscolari, acquisendo invece un'ampiezza espressiva e una maestria produttiva che parla di un traguardo vero (anche e soprattutto per la L.I.E.S. stessa, l'etichetta responsabile di gran parte delle pubblicazioni del malese). Si prenda la traccia d'apertura, in cui ronzii sommessi e il magmatico beat industriale quasi perdono i loro connotati, vengono ammorbiditi da un intelligente campionamento di melodie folk orientali, modulate nell'intensità e nel pitch per formare una sorta di agile mini-bolero, sinistro e comunque dotato di una curiosa sensualità. Allo stesso modo le ambientazioni fetide e malsane di “Post-Soviet Models” viaggiano in simultanea con cowbell disco e pulsazioni Ebm subacquee, per una compenetrazione stilistica tra le più acute degli ultimi tempi.
Non mancano poi i passaggi più fedeli al passato di Tzusing, eppure la concentrazione sull'atmosfera, sul carattere descrittivo delle composizioni, rimane comunque imprescindibile, un elemento fondante di ciascuno dei singoli brani. “Digital Properties” sfuma la produzione e rallenta i Bpm all'inverosimile, esaltando i tratti immersivi di un'ambience tossica, opprimente; “Nature Is Not Created....” coniuga invece al minimalismo proprio dell'estetica del producer un andamento sbilenco e sospeso, dalla costruzione complessa e dall'impatto disorientante, che porta alle estreme conseguenze la voglia di sperimentazione del malese, qui al massimo del suo potenziale ansiogeno.
Tra stranianti concessioni al groove (“King Of Hosts”, con tanto di affascinanti spunti vocali in filigrana) e roboanti stacchi marziali, in cui comunque subentra un elemento estraneo ad alterare l'impostazione iniziale (i passi folk cinesi di “Esther”) il livello non scende mai sotto una media di bontà e finezza espressiva, il che viene senz'altro aiutato da una brevità nella tracklist che porta a evitare l'inserimento di tappabuchi privi di spessore. Di certo, per un filone che si è espresso ai vertici in questo decennio, un album come “Dongfang Bubai” contribuisce a mantenerne alta la rilevanza per ancora molto tempo a venire.
(05/07/2017)