Se siete del mio stesso avviso e la sola idea di “supergruppo” vi ha sempre fatto rigirare gli occhi all’indietro, spero che stiate con me anche oggi, perché, ebbene sì, questa diffidenza non ha più ragione d’esistere. Le Boygenius sono Julien Baker (classe '95), Phoebe Bridgers ('94) e Lucy Dacus ('95), ovvero tre delle più giovani e promettenti star del folk alternativo americano, e col loro esordio in gruppo hanno messo assieme quello che è, semplicemente, uno dei debutti più belli dell’anno. Senza pestarsi i piedi a vicenda, ma unendo sinergicamente le loro sensibilità artistiche, le Boygenius hanno composto un lavoro sopraffino, coeso, un’opera che dà completo sfoggio di quello che ormai pare essere il più peculiare talento del nuovo cantautorato femminile d'America (si veda anche il recente debutto di Snail Mail): fondere in una cosa sola il rock dimesso e umorale (diciamo pure nineties) e tutta la vasta tradizione alt-country che da Lucinda Williams arriva fino a Sharon Van Etten e alle First Aid Kit.
“Stay Down” vede ancora la Baker come protagonista ed è davvero straziante, a partire dagli arpeggi iniziali fino alle strappate e tormentate estensioni vocali nel finale - quel “so I stay down” ripetuto con catartica disperazione. “Salt In The Wound” procede ariosa e incorrotta in uno sciame di riverberi, per giungere infine alla quiete di “Ketchum, ID”, una road-song nella più classica forma folk, al contempo un lamento e un’ode verso la vita nomade (“I am never anywhere/ Anywhere I go/ When I’m home I’m never there/ Long enough to know”).
Partite senza eccessive ambizioni, con sole tre chitarre e un nome che denigrasse con sarcasmo il maschilismo dilagante, le Boygenius sono in realtà andate molto oltre, centrando un esordio emotivamente devastante e capace - in soli ventun minuti - di dare un bella rinvigorita alla scena indie d’oltreoceano. Nessun appunto, quindi, e un solo desiderio: quello di poterne ascoltare presto il seguito.
(26/11/2018)