Che Lucy Dacus avesse talento da vendere e tanto da dire lo si era capito abbondantemente nel 2016, quando comparve il suo primo Lp “No Burden”. Registrato con l’ausilio di un’ottima backing band, nella quale spicca lo scatenato polistrumentista Jacob Blizard, e sotto l’occhio attento del produttore Collin Pastore, è un disco solido e intrigante, dove i versi intensi della Dacus sono immersi in arrangiamenti spessi e curati. Un’opera prima così compiuta da sembrare tutt’altro che un debutto o il frutto di una ventenne – sì, Lucy all’epoca aveva solo vent’anni. Ciononostante, questo sequel intitolato “Historian” alza ulteriormente l’asticella, sia sul fronte lirico, che impegna la Dacus a sviscerare una storia d’amore finita male e un grave lutto, che su quello musicale. A tale scopo la Matador ha sì confermato la vecchia band e Pastore, ma ha affiancato loro un pezzo da novanta della console come John Congleton – un produttore pluripremiato, di cui si fa prima a dire con chi non ha collaborato che il contrario: sul suo pedigree figurano nomi che vanno da John Grant a David Byrne, dagli Alvvays agli Spoon.
L’inizio con “Night Shift” è devastante. “You got a nine to five, so I’ll take the night shift/ And I’ll never see you again”, confida Lucy, mentre Blizard sconquassa il brano con un chitarrone tellurico da far tremare muri e polsi. La cantautrice di Richmond (Virginia) è qui semplice e diretta, ma i suoi versi sono così intimi e il modo di pronunciarli così intenso da provocare un’immedesimazione subitanea e persistente, a meno che non si abbia mai sperimentato una rottura – cosa che mi sembra molto difficile.
Grazie a un first contact così potente, l’identificazione nella Dacus perdura agilmente per tutta la lunghezza del disco, restando intatta anche quando la cantante ascende verso riflessioni più eteree (“Pylar Of Truth”). Chitarre ruggenti e fuzzate manco fossero gli anni 90 come quella dell’opening track tornano a farsi sentire per tutto il disco (l’assolone finale di “Your & Mine”, le pennate grunge della graffiante “Timefighter”), ma dividono lo spazio vitale con ricchi arazzi di fiati (le strombazzate trionfali dei finali di “The Shell” e “Pylar Of Thruth”) e archi tristi che dondolano nell’aria come foglie cadenti (“Nonbeliever”).
Insomma, gli arrangiamenti per cui la Dacus e la sua band hanno optato sono così floridi e variegati da far sembrare i costanti paragoni con le varie Barnett, Quinlan e Torres abbastanza fuori luogo, o perlomeno da ridursi alla maniera in cui tutte queste songwriter guardano ai 90’s. Una cosa è però certa: grazie a tutto quanto detto sopra, ma soprattutto alla capacità di Lucy Dacus di indovinare refrain caldi e coinvolgenti praticamente in ogni canzone, se “Historian” fosse uscito venti, venticinque anni or sono lo staremmo ancora cantando a memoria.
(10/07/2018)