Dopo la sbornia political-rock-blues dell’ottimo “Step Into The Earthquake”, Joyner recupera il più tipico mood introspettivo, rinunciando al supporto di quei musicisti con i quali ha condiviso anni e anni di concerti e incisioni discografiche. Con l’aiuto di Michael Krassner ha infatti reclutato collaboratori con i quali non aveva mai lavorato, una scelta che gli ha permesso di calibrare le sonorità con un piglio nuovo che a tratti rimanda a Bill Callahan.
E’ un album compatto e solido, “Pocket Moon”. Il tono confidenziale è riflessivo e piacevolmente familiare, come novello chansonnier Joyner intona melodie cupe e grevi che pian piano si elevano verso una trascendenza spirituale incantevole: il violino sul finale di “Tongue Of A Child”, il crescendo emotivo di “You Never Know”.
A volte la malinconia è accarezzata da tempi ritmici più fluidi, generando canzoni dai toni cromatici policromi (“You’re Running Away, David”), fino a lambire una potenza sonora di rara bellezza (“Yellow Jacket Blues”).
Di fronte a un artista come Simon Joyner, lo strumento comparativo è superfluo: autenticità espressiva e talento sono ormai una costante, la produzione discografica dell’autore difficilmente cede il passo alla prevedibilità, ogni album è uno scrigno di tesori che ad ogni raggio di luce, anche fioca, emanano nuovi riflessi. Un miracolo poetico che trova la sua ragion d’essere nei piccoli capolavori che immancabilmente affiorano nel pur intenso insieme di canzoni.
Spetta a “Sean Foley’s Blues” lo scettro di “Pocket Moon”: cinque minuti e ventiquattro secondi che condensano tutta la malinconia ma anche l’energia della musica di Joyner, con una fluidità e una complessità armonica che lasciano senza fiato, conquistando un meritato posto tra le canzoni più belle dell’anno in corso.
(15/11/2019)