Il momento più significativo dell’ultimo disco di Marracash, il “king del rap” italiano, ha come protagonista uno dei suoi tanti ospiti. Siamo all’inizio della canzone “L’ego” e dalle retrovie di un pianoforte si fa avanti una voce bizzarra che farfuglia qualcosa. Si attorciglia un po’ su se stessa man mano che la tensione cresce, poi il beat esplode e succede una cosa che sul momento non comprendi: quella stessa voce sale fino a disegnare una melodia insensata, stirata in un acuto come se fosse il collo di Duffy Duck quando lo prendono per la gola. Come in un cartone animato. È un momento nuovo, ed è teatrale; perfino maestoso. È un incipit che da solo riconcilierebbe col rap italiano persino il più ferreo detrattore. O forse no. Sta di fatto che appena Marra inizia a rappare, in un colpo la canzone invecchia di ventidue anni, esattamente il range di età che separa il rapper di Barona da quella voce, così nuova, che lo precede. Una coincidenza?
Il disco di debutto di Davide Mattei, per tutti Tha Supreme, è pieno di queste piccole meraviglie, a partire dal singolo “Scuol4”, che su di un beat che suona come un giocattolo scassato, lo vede delirare su quanto si sentisse sprecato a scuola, prigioniero della noia tra i banchi. È la canzone di un diciottenne che parla la lingua dei suoi coetanei, con quella sana dose di weirdness in più. Ma, sopratutto, è una canzone che non ricorda niente di già sentito. Come ribadisce in “Blun7 a Swishland” - un’altra perla, filastrocca cartoonesca tra chitarra acustica e bassi trap - a Tha Supreme non interessa ascoltare il blablabla di chi gli sta appresso dicendogli cosa fare e non fare. Vuole solo starsene in pace a fumare e a viaggiare con la mente.
Capisci se swingo le parole?
("Sw1n6o")
Insomma, pupillo della Machete di Salmo da tempi non sospetti, Tha Supreme esprime un po’ tutto quello che chiunque, alla sua età, ha provato. E per farlo, scrive, canta, produce e registra tutto da solo. Ma lo fa in un modo nuovo, fuori dagli schemi del genere, fuori dalle convenzioni metriche del rap classico e pure da quelle melodiche in voga negli ultimi tempi. Fuori da tutto ciò, dentro il suo mondo. Parla una lingua che si compiace di essere incomprensibile e canta melodie assurde che si snodano in maniera improbabile, eppure ogni minimo dettaglio è incredibilmente a fuoco, così chiaro nella sua innovativa visione artistica da far pensare di essere davvero davanti all’avvenire di quello che, volenti o nolenti, sarà il nuovo pop italiano da qui ai prossimi anni.
“23 6451” (cioè “le basi”, provate a capire il rebus) è un fucina di spunti creativi che saltano fuori all’impazzata, uno più brillante e inatteso dell’altro. Avreste mai pensato di sentire un bel giro di basso in un pezzo trap? Ascoltate “Blun7 a Swishland”. E avreste mai pensato che la malinconia negli occhi di un adolescente potesse prendere le delicate sembianze di canzoni come “M12ano” (in duetto con la sorella Mara Sattei) o “M8nstar”? O ancora, vi è mai capitato di ascoltare canzoni che in qualche modo somigliassero a “Fuck 3x” e “Gua10”?
L'universo pazzoide e fiabesco creato da Tha Supreme è un luogo dove tutto ciò riesce a prender vita. Ed è così vasto e inclusivo da lasciar spazio anche per una lunga serie di ospiti. Molti di loro stonano (su tutti uno sbagliatissimo Mahmood), ma altri fortunatamente ne colgono lo spirito: c’è Dani Faiv pieno di endorfine in “No14”, c’è Salmo che gioca a fare il matto in “Sw1n6o” e poi c’è Nayt che invece impazzisce sul serio, e in “Oh 9od” mette l’acceleratore, va in extrabeat e in un minuto spacca tutto.
Nell’anno in cui i suoi coetanei si apprestano a prendere il diploma, Tha Supreme ha già riscritto a sua misura le regole del rap. È ormai una popstar fatta e finita, ma continua a non volersi mostrare, tanto che la sua immagine pubblica coincide con quella del suo fumetto-alter ego - un ragazzo con un cappuccio viola tirato su e con la testa sempre per aria. A parlare al suo posto è la musica di un ragazzo che ha mollato la scuola per inseguire concretamente la sua ambizione; non per “giocare a fare”, ma per “essere”. E che anche oggi, a successo raggiunto, continua a esprimersi solo con le sue canzoni, fuori da ogni divismo. Puoi chiamarla dedizione, oppure amore per l’arte, ed è una cosa sempre più rara da incontrare.
Il frutto di tutto ciò è un disco che, tra la causa frivola della trap e quella “sociale” del rap tradizionale, sceglie la via del più puro divertimento. E si sente: è fresco, sorprendente e, ancora una volta, nuovo. Anche guardando all’estero, difficilmente si potrà trovare qualcosa che suoni allo stesso modo. Il futuro è qui, ma i ragazzi lo sanno già.
05/05/2020