Piaccia o meno, la 69esima edizione del Festival di Sanremo ha dato una piccola scossa a quello che potrebbe essere il nuovo corso della musica pop italiana. Il condizionale è d'obbligo, va da sé. Eppure, l'imprevista vittoria del giovane Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, ha assunto con il passare dei giorni un significato ben preciso, ponendosi de facto come l'emblema di una sterzata stilistica mai come ora necessaria. Del resto, non si può restare mammoni per sempre, immersi nello stagno dei ricordi di una tradizione melodica italiana obiettivamente scaduta da anni.
Un cambiamento che ha urtato e continua a infastidire una certa ala conservatrice e che al contrario entusiasma flotte di giovani ascoltatori, i quali hanno immediatamente messo le cose in chiaro portando Mahmood, a poche ore dal trionfo, in cima alle piattaforme streaming, debellando così all'istante le patetiche istanze di chi ha mal digerito una vittoria tanto sacrosanta, quanto per certi versi salvifica. Diciamola tutta: al prossimo Eurosong il Belpaese potrà finalmente essere rappresentato con un prodotto quantomeno fresco nei suoni, nelle parole, nel ritmo, insomma in tutto.
Il percorso musicale di Mahmood inizia da piccolissimo, con le lezioni di teoria e canto lirico ricevute dal maestro Gianluca Valenti. Una volta diventato maggiorenne, il talento milanese decide di frequentare lezioni di pianoforte con l'intento di ampliare il proprio spettro compositivo. Dopo aver collaborato con il produttore Pierpaolo Peroni, con il quale realizza il suo primo singolo "Fallin Rain", cantato in lingua inglese, nel 2013 Mahmood intraprende la collaborazione con Marcello Grilli e Francesco Fugazza, giovani produttori (a moniker MUUT) con i quali assembla i primi brani, avvicinandosi fortemente all'elettronica. Due anni dopo cominciano le prove generali per la conquista dell'Ariston. Nel 2015, Mahmood vince il concorso Area Sanremo. L'anno successivo è in gara con "Dimentica" nella sezione giovani del Festival e si classifica quarto. Il pass diretto al sessantanovesimo Festival arriva con "Gioventù bruciata" a Sanremo Giovani 2018.
L'occasione è d'oro, e Mahmood si presenta tra i big come un giovane interessante, al contempo poco papabile per la vittoria finale. Però "Soldi" non è una canzone come le altre e la faccenda appare ben chiara fin da subito. È una di quelle canzoni che crescono a dismisura ascolto dopo ascolto, che si conficcano in testa e non mollano più la presa. La base pulsante e fresca è curata da due mostri sacri come Charlie Charles e Dardust. L'interpretazione è perfetta, con il timbro a metà strada tra un menestrello nubiano e l'amico Mengoni. Mentre le parole tanto intime, quanto sentite, conducono l'ascoltatore dentro un dialogo familiare emozionante. Il doppio refrain è sua volta appiccicoso.
La successiva title track, pur riprendendo il rapporto conflittuale con il padre nei ricordi di un passato che non torna più, viaggia a sua volta su quote più morbide, quasi a rievocare un Blake solo a tratti meno compassato. "Uramaki" è invece il capolavoro pop dell'anno, o giù di lì. Mahmood stavolta punta a un rapporto sentimentale finito male. La produzione è super, strofa e ritornello volano alti come rondini nel cielo. Una meraviglia e secondo possibile tormentone dell'anno. Meno entusiasmante è il sodalizio con Fabri Fibra nel passo rap di "Anni 90"; tuttavia, il mood vintage e la tastiera che si mescola con il ritmo vagamente magrebino funzionano a dovere.
Il ritmo nordafricano torna in pista in "Asia Occidente", ballatona romantica di stampo r'n'b che prova a giocare su metafore geografiche. Frizzante ed estivo è anche il battito orientaleggiante di "Milano Good Vibes", con la metropoli definita come un "bellissimo deserto", a decantare la solitudine di un'estate solitaria in una città maledettamente arida. Decisamente riuscita anche "Il Nilo nel Navigli", ennesima ballad con ulteriore mancanza paterna, a suggellare il principale leit-motiv del disco. "Remo" gioca con un passo a metà tra Ghali e Kanye West, ed espone un cambio di ritmo incalzante, lo stesso che domina "Mai figlio unico", a rimarcare nuovamente le proprie origini, il cuore caldo della propria terra capace di accendere un beat energico, passionale. Un vero e proprio inno alla fratellanza.
La festosa e soporifera "Sabbie mobili" è un riempitivo francamente evitabile, così come il duetto vagamente sciatto con Gué Pequeno nella seconda versione di "Soldi", messa in coda come un'inutile bomboniera. Al di là di questi due passaggi a vuoto, con "Gioventù bruciata" Mahmood dimostra di essere uno talenti più veraci del pop italiano. Un Aladino comparso quasi all'improvviso, e con una piccola grande lampada tra le mani.
24/02/2019