Continua a essere una dimensione troppo piccola, quella entro la quale si muovono i Leisure Society. Troppo piccola per il valore del progetto, per le canzoni che ogni volta riesce a estrarre dal cilindro, anche quando magari gli album sono inferiori alle aspettative di chi è stato abituato bene dopo un piccolo-grande capolavoro come “The Sleeper”, che giusto di questi tempi soffia sulle sue dieci candeline. In ogni caso, gli inglesi sono andati avanti, e sempre in modo ben più che dignitoso. Negli ultimi anni, con “Alone Aboard the Ark” e “The Fine Art of Hanging On”, hanno cercato di dare un risvolto più propriamente “pop” alla formula, pur senza abbandonare del tutto le radici folk del progetto.
“Arrivals & Departures”, doppio album di sedici canzoni e un'ora complessiva di musica, sembra tornare alle origini dei Leisure Society. A una dimensione più contenuta, in un certo senso artigianale. Una dimensione alla quale hanno concorso le circostanze e i luoghi che hanno visto nascere il doppio album. Le session notturne alla Union Chapel di Londra, senza dubbio, e più in generale il senso di vuoto, di precarietà (ben simboleggiato dal titolo dell'album e della canzone apripista), di perdita che attraversa l'album, a cominciare dal primo singolo “God Has Taken A Vacation”, nel quale il cantante Nick Hemming parla della rottura della relazione con la violinista Helen Whitaker mentre un riff vagamente settantiano si innesta su aggraziate orchestrazioni.
Il valore aggiunto del combo di Brighton, del resto, è sempre stato quello di saper trovare melodie rotonde e di saperle valorizzare grazie a un accompagnamento sobrio e convincente. Con “Arrivals & Departures” conviene avere un minimo di pazienza, poiché è dopo le tiepide (ma tutt'altro che disprezzabili) “A Bird, A Bee, Humanity” e “I'll Pay For It Now” - con ospite Brian Eno - che i Leisure Society iniziano davvero a carburare. Così ecco apparire gli arpeggi smaglianti di “Overheard”, il folk lieve e solenne di “Be You Wherever”, dotato di un ritornello particolarmente compiuto, la sonata pastorale “Arundel Tomb”, il capitolo più folk nel vero senso del termine dell'intero repertorio. L'apice è tuttavia raggiunto con il crescendo orchestrale di “Let Me Bring You Down”, nel quale la calligrafia minuziosa degli inglesi si fa magniloquente.
La seconda parte dell'album è per certi versi anche migliore della prima. In particolare nelle due parti di “Mistakes On The Field”, con il collettivo che si spinge in territori sperimentali (almeno per la sua media, diciamo) e va a toccare vette strumentali di rara bellezza e intensità, sfiorando frattanto i territori della psichedelia.
Più in generale, la malinconia sembra più un pretesto o un mondo da esplorare che uno stato d'animo sul quale trovare una risposta o un punto di appoggio. “Don't Want To Do It Again” parte sottotono come buona parte dei brani in scaletta, un giro di chitarra vagamente blues in questo caso, ma letteralmente esplode in una sessione da big band tascabile. Senza dubbio gioiosa è la parabola di “Beat Of A Drum”, un raggio di sole estivo che appare tra le nuvole che tornano ad adombrare il power-pop di “There Are No Rules Around Here” e il folk crepuscolare di “You've Got The Universe”.
Gli arpeggi di “Ways To Be Saved” sembrano dover chiudere il sipario senza troppo rammarico su di un disco che è forse più di un semplice (doppio) album, ma che rappresenta anche un'età della vita. Quella del dolore e della successiva rinascita, quel sapore agrodolce di cui tutti abbiamo esperienza, ma che nessuno ci ha mai insegnato a maneggiare.
08/05/2019