Riaccensione. Un avvertimento, a tutti, anche, e soprattutto, a se stessi. Angus e la sua cartella che nasconde i segreti del rock and roll scatenato, abrasivo, gasante, terapeutico, curativo, come l'Ovomaltina dei bei tempi, meglio di un caffè triplo, la spinta decisiva per farsi largo tra i chiaroscuri della solita giornata, impermeabile a emozioni e cambiamenti. Ma basta una svisata, un 4/4, un ruggito, una boccaccia e tutto assume nuovi connotati. Basta crederci. Ci credete ancora? Perché poi alla fine buona parte della mitologia sulla "musica giovane" è legata alle emozioni, all'epidermide, al convincimento, all'identificazione. Ci credete ancora agli Ac/Dc e al loro r'n r elettrico (da una definizione dal sapore definitivo di un Angus rabbuiato dai troppi accostamenti tra la sua creatura e l'heavy metal)? Sudate come pazzi, anche se siete fermi, quando vedete le cavalcate di Angus che fa il verso al suo idolo Chuck Berry? Vi fidate comunque di una formula che attinge sempre dal lato più isterico del blues, lo stimola e lo eccita fino al parossismo? Se la risposta è affermativa, nessun problema, qui troverete pane per i vostri denti: la ritmica essenziale, incalzante, mai doma di Phil Rudd e Cliff Williams, la voce recuperata di un Brian Johnson che sembra quello di un tempo, lo swing della famiglia Young, senza più Malcolm, ma c'è Stevie, il nipote, ché tanto si sa che in famiglia suonano tutti la chitarra.
Poi c'è Angus, che non molla mai, disposto un paio di anni fa persino ad accantonare il suo frontman poco in forma pur di proseguire una missione più che una carriera. Sentite come frusta tutti in "Realize", mentre i classici cori baritonali rispondono da par loro e allora lo scolaretto alza ancora di più la voce, prepotente come non mai, e le valvole fumano e il rumore è squassante ma nitido, o come entra senza chiedere il permesso in "Rejection", un invito che nessuno raccoglie, perché i piedi cominciano a muoversi all'unisono e il disco vola al numero 1 ovunque a parte la Slovacchia, paese che notoriamente ama i tempi dispari e sviluppi armonici più ricercati.
E ancora: botta e risposta, piano e forte e via con il solito blaterare dell'ex-Geordie, e i cori, ancora loro, alla "Back In Black", solo un po' più stanchi, anche perché son passati quarant'anni e lo sparo nel buio non è di quelli precisissimi; midtempo e cominci ad avvertire un po' di stanchezza, ma "Through The Mist Of Time" ha quel tocco pop che ha fatto grande la storia di questi australiani di origine scozzese, che giustamente si autocitano e fanno finta di essere arrabbiati e arrapati, ansiosi e adrenalinici, con voce e chitarre che si spingono, che si mescolano, che si somigliano, che vanno all'unisono, all'interno di un motore mai fuori di giri, ma forse qualche sbandata qui e là avrebbe fatto bene a "Witch's Spell" o a "Wild Reputation", giusto per non stare al palo in attesa dell'assolo, sempre più breve, una botta e via, o della canzone seguente, che magari è "Demon Fire", con incipit di Johnson in stile basso e scuro, e riff accerchiante, avvolgente e chorus liberatorio, glorioso; somiglia ad altre dieci canzoni, o forse sono 100, ma anche stavolta un nuovo, vero classico è presente.
Insomma, ci avete creduto ancora una volta o no? Il vostro scriba qui presente non tanto, manco se ne duole, un po' si annoia, ci prova, la voglia scarseggia. Ma il rock che attende consensi forse ha fatto il suo tempo e, a un certo punto, diventa una vicenda di pura sopravvivenza dell'artista. I tifosi se la godono, oppure si accontentano o magari se ne fregano e passano oltre. Angus, invece, se ne infischia dei giudizi e riaccende sempre. Beato lui. Anzi no: dannato!
25/12/2020