Terzo capitolo per quello che sta diventando il principale divertissement di Ty Segall, il side project denominato Fuzz, per il quale ha deciso di cantare e suonare la batteria, in compagnia del multistrumentista Charles Moothart (alle chitarre) e del bassista Chad Ubovich. Un “supergruppo” sbocciato a San Francisco, e ora finito fra le grinfie di Steve Albini, che manovra i suoni per far sì che l’ascoltatore provi la sensazione di trovarsi accanto alla band durante le prove, proprio come fosse nel loro garage di casa.
Confermatissima la formula stilistica: un acidissimo hard-psych cristallizzato (i maligni direbbero “immobilizzato”) fra la fine degli anni 60 e l’inizio del decennio successivo. Una manciata di possenti riff che uniscono idealmente l’hard-rock primordiale dei Black Sabbath, lo stoner dei Kyuss e gli ottimi bignamini realizzati dai Black Mountain. Tutto costruito con grande intelligenza: i distorsori sono quasi sempre “a manetta”, ma il trio è alla costante ricerca di un formato canzone che non venga percepito come troppo estremo, e l’obiettivo è centrato – ad esempio - nel caso di “Spit”, traccia che in un mondo perfetto viaggerebbe altissima nelle chart del circuito indipendente.
Rispetto ai precedenti lavori, “III” si presenta più snello: soltanto due brani (“Time Collapse” ed “End Returning”) sugli otto complessivi risultano lunghi (ma neanche troppo) e strutturati, con qualche frangente altamente lisergico, la provvisoria calma studiata ad arte per alleviare l’onnipresente immane tensione elettrica.
La seconda parte del disco, pur se sempre ruggente, è meno interessante, a causa di alcune soluzioni che tendono a ripetersi. Ma l’intento dei Fuzz non sarà mai quello di architettare rivoluzioni copernicane, semmai suonare a ruota libera, divertendosi, fino allo sfinimento. E in tracce come quelle racchiuse in “III” l’intento appare pienamente raggiunto.
(13/11/2020)