Laguna Beach profumava di sogni confezionati e brillantina.
Non sarà stato il pianeta Texlahoma narrato da Douglas Coupland, ma quello congelato sui calendari era lo stesso eterno giugno 1974. Ogni sera il ballo della scuola regalava lampi di gloria a una reginetta, mentre un'ultima notte spensierata si consumava sulle strade e lo splendore incartava le spiagge condotto per mano dalla marea. Tavole bianche e gialle, piccole creste di spuma, un acciottolato di conchiglie sull'accogliente trapunta dorata di sabbia. Laguna Beach era il set di American Graffiti ingarbugliato con quello di Big Wednesday, e allora a farsi immobile doveva essere anche il 1962 con i suoi bolidi, le sue canzoni memorabili e quella tempestiva nostalgia elargita da mani generose per dare ancor più sostanza alla trama. O il 1967 dell'epopea hippie, con la sua endless summer proverbiale. In un caso o nell'altro, la quintessenza di questo diorama rimane proprio l'estate con il suo bel gravame di morte, come recitava quel cantante nella sua estenuata posa maudit. A sconvolgere il gioco delle infinite repliche sarebbe stato, in tempi abbastanza recenti, un reality prodotto da Mtv, "Laguna Beach: The Real Orange County", buono a falsare per sempre ogni prospettiva e ad affollare la cittadina californiana di turisti e speculatori immobiliari.
Laguna Beach diventava così, una volta di più, il luogo comune perfetto da cui defilarsi. Ty Segall non l'avrebbe ammesso, ma scappava solo per infilarsi in un'altra angusta formula convenzionale, quella dell'ulcera da chitarre. Cominciò lasciando correre i capelli sulle spalle e stipando la valigia con i più brutti camicioni a quadri dai tempi di Seattle Capitale. Con San Francisco a distanza non così proibitiva, un pretesto inattaccabile avrebbe viaggiato al sicuro con lui nella custodia della Fender Jaguar. Per l'apprendistato avrebbe scelto ruoli anche da protagonista ma nel quadro delle più marginali formazioni del pidocchioso circuito garage della Bay Area, facendo pratica intensiva tra sgroppate punk, effrazioni rockabilly, smargiassate in bassa fedeltà e digressioni canzonettare almeno all'apparenza senza particolari pretese. Il buono delle parentesi Epsilons e Party Fowl sarebbe stata l'unione dei tre puntini di sospensione al loro interno: un Segall magari impacciato ma già famelico e i suoi sodali perditempo Charles Moothart e Mikal Cronin, cacciati a forza nel suo furgone di fuggiasco con un set di pentole spacciato per batteria e un basso tenuto su con sputo e scotch da pacchi.
Tutto questo accadeva una decina di anni fa, più o meno, non molto prima che il ragazzo ascendesse in tempi record al rango di golden boy per una scena musicale che, a ben vedere, nemmeno era tale. Per la critica, disorientata dalla prematura scomparsa di una potenziale leggenda come Jay Reatard, non poteva che incarnare l'ideale rimpiazzo, nella frenesia di un apparentamento del quale il Nostro si sarebbe detto poi lusingato, ma tutt'altro che convinto. A dirla tutta i punti di contatto ci sono, e nemmeno pochi. Una certa affinità fisica, per cominciare, tra lunghe chiome bionde e disordinate e quell'aspetto paffutello, da puttini ormai cresciuti e prestati al circo rock alternativo. Quindi una personalità esuberante, incline alle guasconate, un'irriverenza non dettata da scaltri tornaconti ed espressa soprattutto nelle trascinanti esibizioni dal vivo, live dai pirotecnici connotati che hanno contribuito a consolidarne il mito ben più delle semplici prove di studio. Ma anche un indubbio talento nello scrivere canzoni, affiancato da una prolificità a dir poco ragguardevole, gli esordi in gruppi sgangherati, l'exploit come one-man band, una carriera solista sempre più apprezzata, la gavetta spesa tra Goner e In The Red prima dell'approdo a una label indipendente ma di assoluto pregio. E poi quell'insofferenza a una forma espressiva fatta, l'esigenza di non stare mai fermi e di esplorare, compulsivamente, territori musicali magari comunicanti ma pur sempre diversi, dal garage pulcioso e in bassa fedeltà al proto-punk rivisitato, dalla caricatura hard-rock al glam, dalla psichedelia al power-pop per non dimenticare surf e bubblegum, rimasticando senza posa il passato per ripresentarlo in una veste comunque originale senza fermarsi ai pur mirabili duplicati anastatici di tanti altri colleghi.
Tornando indietro, oggi racconteremmo dell'allegra accolita di ventenni californiani limitandoci a menzionare ancora le cassettine scrause e l'incontaminata purezza degli esordi, non fosse che a una delle loro serate capitò il negus di quella scena, John Dwyer, evidentemente in buona e con i contratti della sua etichetta nella tasca del giubbetto. Gli Epsilons, in fondo, erano fratelli minori dei suoi Coachwhips e l'affiliazione tra lui e quell'imberbe capobanda non poteva che risolversi in una pura formalità. Il diavolo del disco eponimo, uscito per Castle Face di lì a qualche mese, non sarebbe mai stato brutto come ci si è divertiti a raccontarlo. Con Melted e Reverse Shark Attack ha persino imparato a confezionare i coperchi, tirando fuori dal cilindro quel paradigma fuzz-pop beatamente cialtrone e irresistibile, revivalista ma già apparecchiato in studio con la dovuta perizia. I grovigli rumorosi applicati come pesanti maschere di cartapesta alle canzoni non hanno impedito al songwriting di farsi via via più limpido, anche se questo è valso il giocare a carte scoperte e la dettagliata confessione di un debito di riconoscenza imbarazzante nei confronti del Lennon più intrepido. L'approdo in Drag City ha quindi assunto i contorni di una gratifica repentina ma sostanzialmente giusta.
Per disobbligarsi, Ty si è cucito addosso la maglia a punti del Tour degli straordinari. Prima è entrato in collisione creativa con l'hipster losangelino celato dal moniker White Fence, quindi ha sconfessato assieme alla band i propri più solidi cliché spostando con prepotenza la barra sui settanta, per poi concludere un trittico di fuoco con la proverbiale aurea medietas di oraziana memoria. Dalle atmosfere retrò floreali e dal jangle psichedelico di Hair al Leviatano prog-glam-space-hard-psych-rock di Slaughterhouse al mitigante rinculo espressivo di Twins, il tutto nei cinque mesi e spiccioli della sua annata migliore.
Poi è di fatto iniziata la discesa, perché anche al più abile dei surfisti non è concesso di prendere la residenza sulla cresta dell'onda...
Una bella promessa
È praticamente un signor nessuno, Ty Garrett Segall, quando lascia la sua città per cercare fortuna a San Francisco. È un pischello poco più che maggiorenne, il figlio adottivo di una coppia benestante - lui avvocato, lei artista - che si diletta con la tavola da surf, con la Fender Stratocaster regalatagli dalla nonna e con la batteria che ha suonato per qualche tempo nella band dance-punk del liceo. La Laguna Beach in cui è cresciuto comincia a stargli stretta, mentre detesta visceralmente quella raffigurata nello squallido baraccone dell'omonimo reality a marchio Mtv, uno specchietto per allodole che ha iniziato a riversare nelle strade della sua adolescenza vagonate di turisti insopportabili. Il trasferimento nella città del Golden Gate nasce quindi dall'impellenza di respirare un'aria diversa e si concretizza nel 2005, ufficialmente per frequentare la locale università pubblica (dove peraltro riuscirà in seguito a laurearsi in Media Studies). Non impiega molto tempo, comunque, a dar vita a nuove compagini musicali, assecondato da un paio di amici di vecchia data o da qualche compagno in cui si è recentemente imbattuto.
Condivisa nei panni del frontman e principale chitarrista assieme a Charles Moothart al basso e Mikal Cronin al sax, oltre al tastierista Michael Anderson e al batterista Roland Cosio, l'avventura Epsilons è apparecchiata nel 2006 da un Ty nemmeno ventenne nel solco di un garage-punk a dir poco convulso, affilato come un rasoio e generosamente incline alle escoriazioni. Un'operina eponima godibile, pestona e regolarmente infiammata, una discreta festa del riverbero per il quintetto, imbastita peraltro con una consapevolezza che nelle prime opere soliste l'acerbo californiano ancora non sarà in grado di mostrare. A registrarla è Mike McHugh, che ospita i ragazzi nel suo studio di Costa Mesa, The Distillery, e garantisce loro un accordo con la Retard Disco. Se il contributo dei sodali emerge in tutta la sua evidenza, a fare davvero la differenza è però l'impressionante verve del giovanissimo capobanda, con una voce che da subito svela corrispondenze significative con quella di Jack White ("Red Hat", "I Don't Know"). Frenesia, follia e cattiveria, esercitate sempre a degni livelli, rafforzano le credenziali di un gruppo che, bava alla bocca, trova il proprio apogeo nell'assalto frontale di "Fever To Kill".
È un diversivo notevole l'asprigna deriva noise-hardcore di "Gonna Give It To Me" con la sua bella selva di chitarre taglienti, ad agevolare più di un ricordo dai Blonde Redhead scapigliati degli inizi a quattro. In "Snap Crackle Pop!" l'organo elettrico introduce invece una scorribanda di quelle micidiali, tra skate-punk e acida sozzura rumorista, a dimostrare anche una certa varietà di soluzioni nel carniere del gruppo. Se Segall appare ancora inevitabilmente condizionato da questo o quel cliché, l'energia sprigionata strada facendo non può comunque lasciare indifferenti, anche grazie a un reattore ritmico che accanto a lui viaggia sempre a pieno regime. Alcuni numeri - la furia tascabile "The Prettiest Thing", la cantilenante "Pantyhose" - suonano alquanto brucianti, scudisciate al fulmicotone perfettamente in linea con i dettami di genere.
Epsilons è insomma un primo passo discografico davvero promettente per il rocker di Laguna Beach, un'esperienza che convince anche quando la formazione sceglie di alleggerire i calibri seppur di poco (senza peraltro ammorbidirsi mai granché). Impatto e tenuta si confermano infatti devastanti fino alla fine e le idee restano chiarissime. I cinque confezionano così un esordio autenticamente killer, micidiale per compattezza sonica e fervore anche quando si conceda occasionali puntate fuori dal seminato (tra psychobilly, cowpunk e una chiusa eponima ferocemente visionaria).
Il sophomore che segue a pochi mesi di distanza, Killed 'em Deader 'n A Six Card Poker Hand (Retard Disco, 2007), non sconfessa la formula e rincara la dose spingendo ancor più sul pedale della follia e dell'asprezza, di un revival garage-punk anni Novanta agguerrito, duro come il granito e con puntate nel demenziale, che ha pesanti debiti di riconoscenza nei confronti di mostri sacri della scena californiana di quel decennio, Mummies in testa, per candidarsi col senno di poi ad aver equivalenti inestimabili ricadute su una nuova generazione di band nel medesimo contesto, dai Fidlar agli Audacity. Un brano come "Problems", in fondo, lo dice chiaro e tondo: questo gruppo è uno schiacciasassi.
Le canzoni sono solo un briciolo più lunghe ed elaborate, il che vuol dire che raggiungono (e talvolta superano) i due minuti di durata mentre le chitarre vorticose, rognosissime, trovano più spazio a discapito di un Ty ancora più sguaiato e forsennato nella sua prova vocale canina. A variare di quel tanto la dieta pensa anche un farfisa prezioso, megafono dell'alienazione in una marcissima "Stronger Than Dirt", più in palla persino degli Offspring indipendenti degli esordi, come in una non meno allucinata (e pazzerella) "Seaview Wislon? Yield!". Il sound si è fatto più torbido e obliquo, meno superficialmente rude. Ideale per corazzare una macchina da guerra come questa, che ora guarda persino al rock ben più pesante di Cheater Slicks o Drive Like Jehu. Nella sfuriata schizoide di "(You're A) Liar", Segall quasi non si sente, perso in un nascondino autistico che ne esalta la vena anarchica ma silenzia tutte le velleità più estrose, qui ancora necessariamente inespresse.
L'album ad ogni conto è bello, furibondo e sanguinante quanto basta e quando Ty fa sentire la sua voce ("Sunshine", ad esempio) decisamente non lascia indifferenti. Venticinque minuti scarsi, ma si arriva in fondo con il fiatone.
Torvi, ottusi, scazzati. Così suonano gli Epsilons al prematuro crepuscolo della loro fugace avventura discografica, una gioiosa, devastante armata di cinque ventenni, brutale nelle sue sortite pestone e ossessive ("9 to 5", "My Momma Said"), nonché un capitolo del romanzo segalliano in sé compiuto e quindi privo della necessità di seguiti che ne avrebbero, con ogni probabilità, smorzato la virulenza (illuminante il singolo "Teeny Boppers"). Con la parentesi praticamente chiusa, è un colpo di fortuna quello che si presenta a Ty una sera che i compagni non possono prendere parte a un concerto già programmato. Grazie a un'intuizione formidabile, il giovane si reinventa one-man band, non limitando il suo show a un voce e chitarra ma suonando anche la grancassa con i piedi, alla maniera di Mark Sultan o Bob Log III. La svolta è questione di pochi accorgimenti pratici, visto che il coraggio non manca.
Prima uscita a suo nome è la cassetta di Horn The Unicorn, registrata dall'autore assieme a Kyle Crawford e pubblicata nel 2007 dalla Wizard Mountain, che pochi mesi dopo licenzierà anche l'esordio del suo nuovo gruppo, The Traditional Fools, e uno split single con i concittadini Superstitions, "Halfnonagan" (i cui tre brani finiranno nel 2009 nella ristampa ampliata proprio di Horn The Unicorn). Dello stesso periodo sono anche i primi Ep, uno dei quali, "Skin", esce per una piccola etichetta di Teramo, la Goodbye Boozy, che si occuperà in seguito anche del singolo d'esordio della coppia Segall-Cronin ("Pop Song", 2009).
L'esordio solista di Ty è pieno di ciarpame dal sapore piacevolmente amatoriale: confezione poverissima, impronta domestica, indole slacker e intonazione sullo sguaiato andante. L'impostazione è ancora orientata a un garage revival abbastanza scolastico, didascalico nella scrittura e non così brutale a livello di interpretazione, per quanto qua e là, specie sul piano vocale, il Nostro lasci intravedere un certo bernoccolo da primitivista in erba. È un power-pop alquanto ordinato e guizzante (con tanto di farfisa) il suo, occasionalmente dato alle fiamme o gettato in pasto al rumore più atroce. Un lavoro divertente e trottante pur senza lampi veri, con giusto qualche gradevole folgorazione ("The Drag", ripresa e migliorata in seguito nell'album eponimo). Il ragazzo appare ad ogni modo ancora troppo controllato, non eccede in derive virtuosistiche da smargiasso né in storpiature acide e la sua prova si smorza sempre un po' troppo, limitata da una regolarità ritmica che annulla in partenza strappi, discontinuità e increspature. Così alla lunga ci si annoia anche un po', la Stratocaster bianca suona inesorabilmente con la museruola o relegata in secondo piano, mentre il ventenne Segall sembra ancora indeciso tra cliché à-la Sonics e scopiazzature senza troppo mordente dai White Stripes ("So Alone").
È appena più interessante lo slabbrato bozzettismo di altri episodi tipo "You're Not Me", da Kurt Cobain dei poveri più che altro. Completa il quadro una cover miserabile (e iper-accelerata) di "Bike" dei Pink Floyd oltre al fumoso psych-folk deviante del quadretto "I Got Stoned", degno dei Thee Oh Sees più sfarfallanti. Un po' più interessanti certe aggiunte nella ristampa, come una "Skin" bella alienata, una "Booksmart" sinistra (ma non meno dozzinale sul piano tecnico), la crepuscolare e malatissima "Love You" o "Ms. White", particolarmente scapestrata, che pure non eludono quell'impressione di esercizi un tantino sterili.
In questa fase embrionale della carriera, l'elettrica di Ty si limita davvero al limite indispensabile: linee ossessive e ritornanti, non certo rimarchevoli per prestanza, riff a dir poco elementari, affiancati da un cantato miagolante e sgraziatissimo nonché sovrastate da un'abbinata basso/batteria tra le più piatte e prive della benché minima attrattiva (il punk catatonico e anni Ottanta di "The Happy Farmer").
Alla fine della fiera, Horn The Unicorn non è molto più che un cazzeggio tirato forse troppo in lungo.
Ty, frattanto, non perde tempo. Ha già in piedi un nuovo progetto con cui tenersi occupato, The Traditional Fools, condiviso con il bassista Andrew Luttrell e con David Fox, che della ghenga è batterista e secondo chitarrista. Come da personale tradizione, anche la nuova creatura non impiega troppo tempo per approdare al debutto, visto che un disco eponimo esce ancora per Wizard Mountain (e ancora con Kyle Crawford in guisa di co-produttore) all'inizio del 2008.
In The Traditional Fools l'indirizzo espressivo si attesta sulla norma di un ciondolante garage-revival, a tratti atroce, a tratti più seraficamente svaccato e orientato al blues ("Layback!!!") o al power-pop ("Party At My House", adrenalinica e schizoide). Il sound è robusto, ultrasaturo, schiantato da un rumore a tutto campo. Ancora una miscela abrasiva, urticante e micidiale che diverte e non poco, con chitarre allo stato terminale - quella di Ty è una bianca linea elettrica che invade ogni spazio e rende riconoscibile quasi esclusivamente il basso di Andrew - urla bestiali e una noncuranza tecnica eletta a sistema.
L'omaggio a Billy Childish dell'inaugurale "Davey Crocket" ha valore programmatico. Stilisticamente, con questo garage sozzissimo e ultrariverberato in bassa (quando non infima) fedeltà, non siamo granché distanti dalla rumenta che il Nostro ha pubblicato a proprio nome appena qualche mese prima. I buoni spunti e le buone vibrazioni, al netto di una limitatissima varietà di soluzioni, ad ogni modo non mancano e l'album suona bello marcio, carico, brutale. Il clima è festoso, dionisiaco, vitalistico e caciarone fino all'apoteosi conclusiva di "All-Right" e gli si perdona lo sbilanciamento causato da un espediente di forma totalizzante, grazie a una purezza che ai giovani attori in scena nessuno si sognerebbe di contestare.
L'impatto si conferma bruciante, sguaiata l'intonazione, e tutto lo scalcagnato baraccone non può che fermarsi all'efferatezza della facciata, a un'epidermide butterata e respingente. Il volume di fuoco comunque è piuttosto elevato, un marasma sonico di tutto riguardo per una compagine di appena tre ventenni. Ancora una volta diversi brani sono semplici fiammate punk luride da un minuto e via, come "Kill Someone You Hate" (cover dei Redd Kross), la più feroce, o "Shredstick". Se in questa fase il progetto principe sono i pur moribondi Epsilons, in un simile diversivo come nei lavori solisti Ty sfoga la propria aspirazione al disordine e al baccano più sfrenato, con indubbio profitto. Abbastanza curiosamente, la linea destinata a venire sviluppata in seguito sarà proprio quest'ultima. Il 2008, ad ogni modo, è anche l'anno del battesimo (e della dipartita) di un'ulteriore compagine del rocker di Laguna Beach, per l'occasione solo batterista: si tratta dei meno fortunati Party Fowl, dove suonano i fidati Cosio, Cronin e Luttrell, oltre al chitarrista Seth Densham, mentre a cantare è Adam Palmer. Ancora una formazione orientata al garage-punk in bassissima fedeltà, di cui usciranno tuttavia solo una cassetta per Dementoid e un meno carbonaro Ep per Post Present Medium, entrambi eponimi e francamente trascurabili.
Un diavoletto a San Francisco
Apprezzabili o meno, tutti i lavori realizzati fino a questo punto dall'operoso artista californiano non hanno modo di offrirgli l'agognata fuga dall'anonimato. Per lui la fortuna si è comunque già messa in moto, e la svolta si concretizza quando a uno degli ultimi concerti cittadini degli Epsilons presenzia John Dwyer, già frontman di una miriade di ferocissime compagini locali nonché figura-chiave per il circuito underground della Bay Area. L'intesa tra i due è immediata, e non occorre che qualche birra scolata insieme al bancone perché si tramuti in una vera e propria amicizia. Dwyer non esita a offrire a Ty l'opportunità di un lancio con l'etichetta che ha da poco fondato, così un secondo esordio solista di Segall vede presto la luce con più consona visibilità, titolo numero due del catalogo Castle Face dopo "Sucks Blood" dei Thee Oh Sees.
In seguito, il giovane californiano non mancherà di dispensare parole di stima per l'improvvisato mecenate, definito a più riprese in questa o quell'intervista "il sindaco di San Francisco" e "la persona più squisita del mondo".
Registrato da Ty con Brian Kruger, Ty Segall arriva nei negozi alla fine del 2008. A introdurlo è "Go Home", cartolina in bassa fedeltà virata al rancido, tagliente e densa di asperità, un boogie avvelenato su un atroce fondo sonoro. Ma la linea espressiva è destinata a innumerevoli repliche, se possibile ancor più improntata a un garage-rock marcissimo, folle, affogato nel riverbero. I suoi bozzetti sono scabri, ridotti a ossa, nervi e spina elettrica, ma la formula si rivela intrigante a sufficienza e convince, senza che occorra chissà quale ulteriore cura del dettaglio.
Minimale, asprigno e selvaggio, Segall scimmiotta da primitivista scaltrito il rock'n'roll dei primordi, ma rivela anche un talento prodigioso per la melodia e sa essere aulico, affilato, incline a un romanticismo inesorabilmente corrotto dal rumore. Quando vuole, è anche una discreta macchina da guerra con la sua miscela assassina, una sorta di sacerdote del tetano con un debole per i ruvidi bozzetti anthemici.
La grana sovraesposta satura ogni spazio bianco, mentre Ty si gingilla con le sue cantilene e lascia spurgare una chitarra twangy dalle rimarchevoli deleghe revivaliste. È un sound nuovo, irriguardoso, ma assai meno approssimativo di quel che vorrebbe lasciare intendere. Feroce ma impassibile, il giovane apostolo californiano mescola con astuzia le carte tra surf, punk e power-pop, esasperando in chiave acida qualsiasi strofa o ritornello e, sostanzialmente, centrando il bersaglio. In "You're Not Me" il tono è ludico, goliardico, incline a gustose derive infantili, come già per lo spirito affine Dwyer. Così il risultato arriva a suonare come una dondolante storpiatura del verbo grunge, una colonna sonora da sciroccati, in apparenza sbrindellata ma a conti fatti irresistibile nelle sue puntate più grottesche, Fab Four esacerbati del gioiellino "Dating" in testa.
È un artista ancora amabilmente naif il primo Segall, abrasivo ma con gentilezza, e con più di una corrispondenza con altre stelline di una scena (più ideale che effettiva) che guarda al passato con devozione, gli affamatissimi Shannon & The Clams su tutti (la cover dei Ramones "You Should Never Have Opened That Door").
Ty Segall si configura insomma come un piccolo disco con piccole gemme folgoranti - la chiusa di "An Ill Jest", ad esempio, dove si predilige una maggiore intelleggibilità pur senza rinunciare del tutto all'intonazione obliqua, vero fiore all'occhiello di una formula ancora non disinnescata in inflazionato cliché - e un'opera fresca anche, che contribuisce a lanciare un interprete derivativo quanto si vuole ma alquanto incontenibile nei suoi esercizi da irruento alchimista, pure quando le scopiazzature blues lo costringono a pagare debiti salati al Jack White di inizio carriera.
L'amicizia con Dwyer, dal canto suo, porterà a un doppio split single con i Thee Oh Sees, nel 2009 ("The Drag/Maria Stacks") e nel 2010 ("Bruise Cruise Vol. 1"), cui farà seguito la doppia partecipazione alle succose compilation della Castle Face: "Group Flex" del 2011 (che ospita un paio di brani intestati a Ty e Mikal, "Fame" e la cover di Bowie "Suffragette City") e "Group Flex II: Son Of Flex" (dove è presente "Fucked Up Motherfucker").
Il 2009 vede militare Ty per qualche mese nelle file dei Sic Alps, in guisa di batterista, ma è anche l'anno del varo di un estemporaneo progetto orientato al lo-fi oltranzista, The Perverts, condiviso ancora con Charles Moothart e con Jigmae Baer dei Royal Baths, che per breve tempo farà anche parte dei Thee Oh Sees. Un Ep eponimo di sei brani pubblicato dalla Captcha è la sola uscita discografica della band. Il primo disco di Segall di un'annata particolarmente intensa è però lo split Ty Segall/Black Time, fuori a giugno grazie alla canadese Telephone Explosion (poi ristampato tre anni dopo dalla Burger) con il chilometrico titolo ufficiale "Swag / Sitting In The Back Of A Morris Marina Parked At The Pier Eating Sandwiches Whilst The Rain Drums On The Roof".
La martellante "Schwag" vale come buona introduzione al nuovo corso, ma è la quasi omonima "Swag", brano-chiave di questa raccolta, a replicare la formula dell'esordio solista pure con una marcia in più, uno sprint in chiave pop che si rivela abbastanza irresistibile, strizza l'occhio al surf e si candida a diventare il manifesto di un'estetica, di quel che Ty farà d'ora innanzi. Per la prima volta un suo disco orchestra un abile compromesso tra furore ultrariverberato e alleggerimento canzonettaro, in quadretti ancora tirati su con pochissimo ma sufficientemente emblematici di un cambio di passo espressivo.
Sugli scudi il primitivismo da burla della quantomeno eloquente "Be A Caveman", o il romanticismo scorticato di una "Goin' Down" particolarmente serrata. La sgangherata "No No" ribadisce il rifiuto irrinunciabile alla bella forma, per quanto nella sua approssimazione il sound abbia ormai raggiunto una sorta di classicità in sé compiuta e perfettamente autosufficiente, che non andrà incontro a sostanziali revisioni, almeno nell'immediato. Allo schema fa eccezione il sadismo sonoro della sola "Paid Played Out".
I Black Time spendono il loro gettone all'insegna di un punk-rock non certo più edulcorato e tutto sommato affine a quello delle prime prove di Segall, per l'intransigente indole rumorista e lo spirito beatamente goliardico. Come dimostra la belluina "Infestation", una prova abbastanza devastante la loro, per quanto ancora implicitamente limitata da una convenzionalità di fondo che arriva dritta dagli atroci germi dell'infezione punk californiana anni Ottanta e Novanta, con i soliti Mummies in testa. Riescono più interessanti, i ragazzotti inglesi, quando alla furia cieca ("Glass Shatters") abbinano un minimo di costrutto tecnico, arrivando a evocare la giubilante insanità del primo grunge (dei Mudhoney in particolare) o l'enfasi rude del connazionale Billy Childish, prima che la rutilante selva di chitarre sovraesposte in "A Radio In The Dark" abbia la meglio, con la sua poderosa muraglia.
Non trascorre che un mese e Ty ha già pronto un ulteriore dispaccio da lasciare alla crescente comunità dei suoi aficionados. Lemons è la sua prima uscita per l'etichetta di Eric Oblivian, la celebre Goner, un evidente avanzamento di rango in seno a una scena (solo ipotetica) di cui diverrà ben presto il golden boy.
Pian piano il songwriting tende a normalizzarsi, i minutaggi aumentano e inizia a prevalere una miscela di garage autistico e noise-pop, claudicante e deformato, con sottili quanto ludiche incursioni nel folk o nel blues. Certo, come chiarisce "Standing At The Station", la propensione al revival non viene sconfessata e Ty si diletta nei panni del primitivista, del monello passatista, con buon impeto ma anche una buona dose di disciplina in più rispetto alle precedenti fatiche, alla maniera di un John Dwyer solo un briciolo meno selvatico (tra echi a nastro e urletti guizzanti).
"Lovely One" è il classico bozzetto folk lo-fi, scapigliato e miserabile, come il Nostro ne proporrà di tanto in tanto pur con minor baldanza da smargiasso (in Sleeper, ad esempio); in questa circostanza, un diversivo senz'altro valido per spezzare l'andazzo monocolore del disco.
A strettissimo giro di posta, "Can't Talk" ripropone subito la sciapa verve marezzata di una bassa fedeltà che non si cura più di nascondere le proprie intuizioni melodiche rinuncia piuttosto a suonare atroce per il puro gusto dello sberleffo terrorista. La palestra per un'indefessa ricreazione a tempo indeterminato è in questo caso ben rappresentata dallo svago strumentale di "Untitled #2", tra minimalismo elettrico e psicomotricità rumorista.
Affiancato sul piano tecnico da Matthew Hartman e da un ritornante Mike McHugh, azzarda qualcosa in più con lo sghembo romanticismo di "Rusted Dust", ancora all'inseguimento del fantasma di Cobain eppure, nel segno di una marginalità amabile (forse proprio grazie a essa), abbastanza convincente. Appaiono ben più movimentate la sola folle eccezione, "Johnny", più che altro un contentino ai suoi estimatori caciaroni della primissima ora, e "Die Tonight", dove il furore schizoide di ieri resta peraltro un mero ricordo, con il californiano che insiste a giocare praticamente in punta di fioretto con un limitato repertorio di trucchi a bassissimo coefficiente di difficoltà, utili a garantire all'album una sufficienza agevole ma priva di grandi slanci. Il boogie del dropout evocato nell'omonimo quadretto - un'indovinata rilettura da Captain Beefheart - è l'ennesimo numero del lotto a follia controllata, a pilota automatico inserito. "Like You" chiude i giochi senza clamori, ma insiste opportunamente a promuovere la scarmigliata, indigente poesia di un giovane artista del riverbero, della canzone virata al rancido.
Lemons è insomma gradevole, anche se il materiale, in questo caso, non sembra proprio dei più esplosivi e a imporsi è l'impressione di un'opera di consolidamento, di un'estetica garibaldina (ma all'acqua di rose) in particolare.
Un 2009 ricchissimo di soddisfazioni per il garage-rocker di Laguna Beach si chiude a dicembre con la pubblicazione su Kill Shaman di Reverse Shark Attack. Introdotto sei mesi prima dallo spumeggiante singolo "Pop Song", il primo album in collaborazione con l'amico Mikal Cronin al di fuori degli Epsilons e dei Party Fowl può suonare un lavoro estremista, letto retrospettivamente, e in parte lo è. Punk cialtrone, deformazioni grottesche, slabbrate acide, rigogliosa indole sfarfallante e una naïveté da battaglia. Sul piano squisitamente rumorista, l'efferato Ty delle prime produzioni casalinghe o dei Traditional Fools ha comunque fatto di peggio e, anche in quanto a bassa fedeltà, le nefandezze del biennio precedente non vengono neanche lontanamente bissate. L'indirizzo stilistico è un garage lo-fi particolarmente sicuro del fatto suo e delle proprie felici intuizioni pop ("High School"), sporcate sistematicamente o accelerate in chiave schizoide ("Ramona") con indubbio profitto. Un disco ultracarico e nel contempo marcio al punto giusto, quindi, mordace ma divertente, che dell'esperienza condivisa viene in un certo senso a rappresentare una sorta di cruciale snodo espressivo: un nuovo punto di partenza per Ty, un'ipotesi che sa di estemporaneo divertissement per Mikal, non replicata nei futuri lavori più propriamente power-pop, ancora suonati con Segall ma intestati a lui in esclusiva.
Risulta particolarmente furibonda e godibile la cover di "Take Up Thy Stethescope And Walk" dei Pink Floyd della stagione barrettiana, che riesce nella non facile impresa di suonare ancor più selvaggia e delirante dell'originale, alla maniera del John Dwyer più incontenibile. Il culmine è però raggiunto, inevitabilmente, dalla title track che chiude il disco ritagliandosi l'intera seconda facciata: una lunga suite mutante, un incoerente moloch da dieci minuti e passa, che alterna sprazzi di ballate floreali a derive psych visionarie e trionfanti sgroppate surf-rock à-la Dick Dale, in maniera formidabile.
Il piccolo Cesare che non ti aspetti
Mentre la sua attività live non conosce soste e viene celebrata sempre più come un fenomeno imperdibile, non solo dagli appassionati di più stretta osservanza in ambito garage, Ty ha già pronto un nuovo album che pubblica ancora per Goner, a qualche mese appena dal più diretto predecessore. Che con Melted intenda fare sul serio, lo chiarisce la presenza di un paio di aiutanti titolati in cabina di regia, l'ex-compagno Mike Donovan e quell'Eric "King Riff" Bauer che diventerà il suo più assiduo collaboratore per la parte tecnica. La batterista Emily Rose Epstein comincia a ritagliarsi un ruolo considerevole nella band che lo accompagna, ma ospitate significative sono anche quella dello stesso Donovan, dell'altro Sic Alps Tim Hellman, di un John Dwyer flautista e degli occasionali batteristi Moothart e Jigmae Baer.
Il Ty in questione appare già un artista nuovo. Il suono si è in buona parte ripulito aprendo nel contempo alla dimensione della profondità, la scrittura rivela ben altra ponderazione, il chitarrismo tende con autorevolezza al lancinante e l'intonazione suona superbamente asprigna, melliflua, velenosa. Certo, "Caesar" lo dimostra, la vena resta tendenzialmente ludica e caciarona, svagata e leggerina, ma ora cominciano a farsi sentire debiti davvero importanti nei confronti dei quattro di Liverpool e il cambio di passo riesce formidabile, tra un pianoforte ubriaco, un flauto verderame e un falsetto maligno, anche perché l'estrazione garagista e il debole per i feedback non sono certo annullati di punto in bianco. E infatti rieccolo all'assalto il Nostro, in una "Girlfriend" affilata e urticante al punto giusto con la sua brava corazza di fuzz e una sottile (ma ridanciana) crosticina di disperazione. A questo giro prevalgono comunque le ballate malaticce che impazziscono tutt'a un tratto come maionese lennoniana (eloquente il gioiellino "Sad Fuzz"): dietro il rumore c'è del costrutto e sotto le scorze e i garbugli elettrici si cela sempre una melodia killer, un irresistibile refrain da mandare a memoria quasi all'istante.
La "pancetta" del disco smorza volutamente la brillantezza di questo nuovo corso, ma lo fa a fin di bene e solo per una breve pausa: la title track è forse, a ricordo e omaggio dei pur recenti trascorsi, l'episodio più insudiciato a spregio da echi e riverberi, per quanto rappresenti a ben vedere anche una valvola di sfogo evidentemente irrinunciabile; alla stessa maniera, "Mike D's Coke" è poco più che una miserabile filastrocca, uno sgorbio sfarfallante e in modestissima fedeltà per assolvere ai propri bassi istinti di sabotatore sonico.
Subito oltre, si torna a volare alto. "Imaginary Person" è proprio la tipica canzonetta segalliana ad alto coefficiente di revival e a comprovata efficienza nella tenuta di strada. Se aggiungiamo al conto l'ennesimo hook feroce e irresistibile, il gioco è fatto e la resa non contempla condizioni. Le api cantate da Ty in "Bees" ronzano e fanno colore ma proprio non pungono, un po' come lui in questa variante più ragionevole e aperta al piacere della citazione, meno sterilmente consacrata al caos o alla goliardata d'ordinanza.
Bisogna invece attendere "My Sunshine", traccia numero otto, per potersi finalmente ritrovare, come da previsioni a lungo disattese, in zona Nirvana, con indubbio profitto dietro quel maledettismo di facciata e una strafottenza contagiosa. Questo il romanticismo nell'accezione di Ty Segall, un giochino semplice semplice, privo di chissà quale complicazione intellettuale, e che ad alcuni potrà anche sembrare insincero (ma non lo è affatto). La vena deviante e un tantino rancida della miglior psichedelia sixties, dal "Magical Mystery Tour" in giù, unita alla compattezza di un sound che sa essere insieme potente e acuminato, può davvero fare il miracolo ("Mrs"). Lui l'ha capito e si getta a capofitto su questo nuovo filone aureo, tracciando con scaltrezza un sentiero che in tanti percorreranno, seguendo a ruota: stupido per necessità di sceneggiatura, assai intelligente all'atto pratico. La chiusura quasi estatica con "Alone" completa uno dei suoi album più importanti e significativi, perché davvero di svolta. Ascoltato tra questi solchi, il ragazzo scapestrato di ieri si rivela sufficientemente adulto e dimostra l'intenzione di non fermarsi nelle esplorazioni della sua musica, pur senza nemmeno voler tradire il fanciullino entusiasta e burlone che continua ad albergargli dentro.
L'azzardo dell'artista di Laguna Beach, ad ogni modo, viene ripagato alla grande. Il nome è ormai oggetto di un culto crescente, in Europa come negli Stati Uniti, e la prestigiosa Drag City gli offre un contratto in fondo impensabile solo un paio di anni prima. Registrato ancora da Eric "King Riff" Bauer, Goodbye Bread è proprio il classico disco giusto al momento giusto, perfetto per alimentare il mito di Segall e ampliarne le credenziali in seno a un movimento garage-rock tornato a imporsi con prepotenza all'attenzione generale dopo i fasti dei primi Nineties.
Rallentato fino all'inimmaginabile, almeno se si pensa a qualche tempo prima, e con una resa tecnica praticamente linda per i suoi standard, è il naturale approdo di un percorso di riforma avviato con gli immediati predecessori, nella direzione di una comfort-zone a base di ballate appena appena sdrucite, una generale limpidezza sonora e un'interpretazione più che disciplinata. Movimenta un po' le acque giusto con "California Commercial", per quanto gli estremi garage-punk del passato restino solo un pallido ricordo. La norma su cui si attesta la sua musica è un power-pop impastato e catatonico, che ha sfrondato con decisione tutti i garbugli rumoristi e limita la propria ricreazione virtuosista a qualche estemporaneo assolo elettrico di buon impatto. "You Make The Sun Fry" è una delle sue canzoni più formidabili, un brano da crepuscolo incendiato, arricchito da uno dei migliori hook del repertorio e da una posa amabilmente rovinata che ben si intona con l'animo indolente e la placida insofferenza del disco.
Il debito nei confronti di Lennon raggiunge livelli prossimi al parossismo, ma l'aderenza al modello rimane sufficientemente sincera, spassionata e scoperta, così da allontanare in partenza eventuali accuse di plagio o bieco opportunismo. Di suo Ty ci mette una disposizione d'animo tra il lagnoso, l'indifferente e lo scoppiato, che aggiorna la poetica dell'originale ai tempi correnti. Il singolo "My Head Explodes" insiste con lo scaltro velario nichilista, vestendo di umori grunge una melodia che ricorda quella celeberrima di "Sweet Dreams" e un ritornello stile Smashing Pumpkins (periodo "Siamese Dream"), entrambi opportunamente in acido. "The Floor" gioca la sua partita sui medesimi terreni, con Segall che biascica le sue parole con intonazione assente mentre elettrico e acustico celebrano le loro nozze in un clima di felice alienazione. Il fuzz torna a farla da padrone in "Where Your Head Goes", mentre il Nostro recita la parte quasi mistica del cerimoniere, tra malsane inquietudini e occasionali languori sunshine-pop. Un bel contrasto che contribuisce a conferire sapore a un disco strano, velenoso ma indubbiamente infettivo e avvincente con la sua sinistra malia.
Cresciuto sensibilmente come autore, il californiano è abile a fare fuoco con pochissima legna, nel caso di "I Am With You" un ridotto formulario di cliché romantici rigorosamente all'aceto e una pregevole predisposizione al cambio di passo, all'increspatura e alla discontinuità un po' schizoide, con tanto di finale decadente e incendiato à-la George Harrison.
Non ci si annoia. "Mr Toad's Wild Road" chiude ancora nel solco di certo luminoso pauperismo di marca beatlesiana, destreggiandosi al meglio grazie a quei due o tre artifici evidentemente mandati a memoria, adeguati al mood del disco, alla sua weirdness sottilmente psichedelica, e fatti fruttare al momento buono con indubbio talento e una non meno rimarchevole faccia di bronzo (idealmente prestatagli dal Segugio di Sant'Uberto che troneggia nella fotografia in copertina).
La risposta della Goner, orfana della sua gallina dalle uova d'oro, non si fa attendere. A novembre dello stesso anno ecco servita la raccolta Singles 2007-2010, sorta di greatest hits del primo Segall, a completamento di una fase scapigliata, da emergente agguerrito, solo con versioni volutamente più crude e approssimative degli originali. Tra i produttori ospiti, oltre ai soliti Bauer e Fox, si segnala anche Tim Cohen, frontman dei Fresh & Onlys, uno degli alfieri di punta della scena di San Francisco.
"Where We Go" lancia la collezione nel solco di un garage sgangherato e pezzente dalle felici stilizzazioni pop, prima della svolta verso il surf e il power-pop di una "Sweets" ancora basica in quanto a songwriting, ma contagiosa nella sua festante brutalità easy-listening à-la Mark Sultan. Come chiarisce poi "It", tutta un riverbero, protagonista un'elettrica ulceratissima e arrembante, il tenore delle registrazioni resta piacevolmente miserabile e le medesime coordinate - su tutte un claudicante chitarrismo, la grana immancabilmente sovraesposta e l'interpretazione sopra le righe - sono ribadite anche altrove, da "Son Of Sam" (dei punk newyorkesi Chain Gang l'originale anni Settanta) in giù, rivelando un'uniformità stilistica che lascia ammirati.
Se non si hanno particolari pregiudizi nei confronti del lo-fi, l'album compilativo decisamente merita: la tirata punk grezzissima di "Ms. White" riporta più ai Traditional Fools che alle prime cose soliste del californiano; "No No" trasuda verve slacker con buona personalità; "Skin" sposa garage-punk e psichedelia sul marcio andante, e l'incontro funziona a dovere; "Booksmart" è un pezzone di quelli inesorabili a base di riff taglienti, batteria pestona e melodia elementare ma che si conficca in mente al primo ascolto.
Ottimi brani tipo "Cents" continuano a fare la loro porca figura anche in questa veste di rude approssimazione, tagliati con l'accetta, puntuti e meravigliosamente diretti. Anche nel bel mezzo del caos, Ty dimostra di avere le idee chiare, non lascia dubbi sulla purezza della propria prova alla maniera del John Dwyer scapigliato degli esordi ("Standing At The Station"), diverte e si diverte con questi omaggi tascabili al tetano. Davvero formidabile è anche la scaletta, che comprende tutti i numeri migliori di una prima fetta di carriera magari ancora ingenua ma tutto sommato inappuntabile, da una "My Sunshine" sanguinante come da programma a una "Caesar" persino composta nella sua infettiva ruffianeria, e dalla scorticatissima carogna canzonettara di "Dating" alle cadenze blues vacanziere di "So Alone".
Tutta la seconda parte dell'album è irrinunciabile. Nel mucchio anche un po' di paccottiglia schizoide ("Fuzzy Cat") che spinge a mille sul pedale di un sinistro infantilismo, un'ectoplasmica "Maria Stacks" rubata in tutto e per tutto ai Thee Oh Sees, ombre ed echi inclusi, il pendent acustico di "Lovely One", gioiellino folk psichedelico chiaramente influenzato da George Harrison, il boogie allucinato della conclusiva "I Think I Have It", l'electro-trash di "Shoot You In The Head", lo schizzatissimo assalto rockabilly di "Happy Creeps" o l'atroce psychobilly informe di "Hey Big Mouth". Dietro tutte queste maschere Ty appare sempre in parte, credibile e avvincente.
Per i puristi del verbo segalliano, un'antologia imperdibile perché priva di filtri, di cautele e soprattutto dei soliti riempitivi con cui il nostro ha talvolta affollato i suoi lavori ufficiali.
Un'annata pazzesca
Il 2012 di Ty si apre all'insegna di un'inedita (quanto indovinata) collaborazione, con l'alfiere losangelino del sixties-revival in bassissima fedeltà, Tim Presley aka White Fence. Ancora prodotto da King Riff, Hair esce sempre per Drag City ad aprile. Si tratta finalmente di un'escursione dai decisi connotati psichedelici, per orientare la quale il barrettiano White Fence si rivela decisivo, andando ben al di là del semplice ruolo di "compagno di viaggio".
Il disco riprende, affina e sviluppa un discorso che Segall aveva già avviato assieme a Mikal Cronin tre anni prima in Reverse Shark Attack, specie nel torrenziale e cangiante collage che chiudeva quell'opera. Qui siamo piuttosto dalle parti di un psych-folk dalle marcate inflessioni West Coast dei tardi Sixties, misurato e cantilenante, aperto spesso e volentieri alle deviazioni rumorose (ma sufficientemente auliche) proprie del Nostro, come dimostra l'inaugurale "Time".
Ludico e brioso, l'incontro delle due anime produce le cose migliori in passaggi floreali ma mordaci come "I Am Not A Game", autentico gioiellino esaltato da un organetto chamber-pop irresistibile e dall'indiavolata Mustang di un Ty luciferino. Fresca e insieme orientata a un obliquo revival, la joint-venture funziona perché diverte e intriga con il giusto piglio. "Easy Rider" corrisponde peraltro in pieno all'identikit segalliano del periodo, da Goodbye Bread in giù: micidiale negli hook, ruvido senza suonare confusionario, piacevolmente acidognolo nel proprio citazionismo furbetto.
Dal canto suo, Presley alza con innegabile profitto il tasso di weirdness grazie ad animazioni neo-hippy filologicamente corrette che legano a meraviglia con lo sgangherato nervosismo garage-pop di Segall. Il connubio appare fluido e rilascia un'impressione di felice libertà creativa, di anarchia fruttuosa e fanciullesca armonia che le code jammate (e vorticose) di diversi brani esaltano.
"Crybaby" aggiunge sul piatto un pizzico di festante follia per i due ragazzi (anzi tre in questo caso, visto che basso e pianoforte sono suonati proprio da Cronin) che si inzaccherano con foga in una sudicia pozza lo-fi di ritorno, senza peraltro intaccare la qualità di un'operazione amabilmente collaterale e fuori dagli schemi per via di quel bel clima di ricreazione isterica. "(I Can't Get) Around You" offre per converso un arrangiamento più elegante, improntato al modernariato, grazie all'harpsichord elettrificato e a superbe chitarre, ma - tra grana luminosissima (e inevitabilmente sovraesposta) e spirito naif quanto mai battagliero - non suona meno acida o scapestrata del resto della raccolta.
Affogato nel riverbero o esacerbato in chiave enfatica dalla bizzosissima Fender del Nostro, il trottante jangle-pop di "Scissor People" viene sconvolto da una prova di chitarrismo onnivoro, velenosa quanto muscolare, un prolungato cazzeggio o un'esultante divagazione che fa brodo comunque come libero esercizio di stile. Con il suo bravo coretto sunshine (ospite il fratello di Tim, Sean), "Tongues" vale invece, anche e soprattutto, come affettuoso omaggio alla California ribelle negli anni d'oro dei movimenti di contestazione giovanile, quella dei capelloni del celeberrimo musical (intitolato non a caso come questo album), in cui chitarra e basso effettivamente recitano avvinghiati come lingue in una appassionata corrispondenza di amorosi sensi.
Se Hair ha centrato il bersaglio grosso, l'impressione che si configura con l'opera successiva è quella della classica freccia che disintegra la freccia già conficcata nel cerchio rosso. Slaughterhouse, questo il titolo, arriva nei negozi via In The Red a fine giugno dello stesso anno ed è intestato alla Ty Segall Band, la consolidata formazione a quattro (con Ty e Moothart alla chitarra, Mikal al basso e la Epstein alla batteria) che aveva già avuto un battesimo discografico nel gennaio dell'anno precedente con il devastante album dal vivo Live In Aisle 5, uscito per Southpaw e suggellato da una cover formidabile di "Baby Baby Baby" dei Vibrators. È quasi un doveroso riconoscimento al lungo percorso svolto assieme dal quartetto nell'ascesa al successo tra gli indipendenti. La ricetta del disco secondo l'autore? Evil space rock. "Silver Machine" degli Hawkwind che incontra "N.I.B." dei Black Sabbath, che incontra "Master Of The Universe" ancora degli Hawkwind (oltre a Stooges, MC5 e Black Flag, viene da aggiungere).
Registrato a Sacramento dall'uomo giusto, quel Chris Woodhouse che ha trasformato i Thee Oh Sees nella poderosa macchina da guerra che conosciamo, l'album rappresenta stilisticamente un punto di partenza importante anche per il futuro progetto Fuzz, le cui opere risulteranno tuttavia ben più pachidermiche.
"Death" spalanca il maelstrom nerissimo di questo informe moloch, affollato di canaloni heavy, muraglie di granito e latrati al veleno ed esacerbato da una torrenziale enfasi hard-psych-rock anni Settanta, mentre "I Bought My Eyes" ne sublima la formula grazie a un trionfalismo iperaccelerato. Non occorrono che pochi minuti per apprezzare una delle produzioni più mirabili di Segall, satura di sonorità acide, di increspature elettriche e pedaliere gorgoglianti, ma anche limpida come di rado è capitato di incontrarne nei lavori da lui firmati.
L'ascoltatore è spinto come da una forza centrifuga a sperimentare una sorta di plastica vertigine, un turbinio vorticoso e avvolgente che lo spiritato Ty anima senza incertezze ("The Tongue") e con dalla sua uno spropositato volume di fuoco, un tono muscolare inaudito e una prestanza ritmica di gran lunga superiore alla media delle sue opere soliste. Una title track molto più grezza e feroce, assieme alla trucidissima "The Bag I'm In", infestata da sudici fantasmi psychobilly, smentiscono per qualche attimo questa impostazione e puntano nuovamente a un garage tutto ulcere in bassa fedeltà. "Tell Me What's Inside Your Heart" chiarisce invece che l'andatura non conoscerà rallentamenti e che l'intenzione, dietro una frenesia magistralmente orchestrata, dentro un caos furibondo ma organizzato che mira a prendere per stordimento chiunque presti orecchio, è di non fare prigionieri.
"Wave Goodbye" morde un po' il freno ma ripropone la miglior maschera torva e insana del Nostro, che gioca a travestirsi da Marc Bolan e si sollazza con le sue pose maligne alla testa di un'armata brutale e inesorabile. Chitarre degne di una segheria, basso a tutto sesto e batteria che pare un compressore diesel: un'autentica prova di macelleria musicale, cui il titolo dell'album giustamente allude. Con "Muscle Man" i californiani piegano autorevolmente verso l'alleggerimento da sciroccati, verso i refrain surf-canzonettari, pur senza delegittimare un'impronta sonora sempre tendente all'aspro, quell'estetica allucinata e quel verbo extra-fast (citato espressamente nelle interviste e agitato come un vessillo) che la rilettura del classicone "Diddy Wah Diddy" di Bo Diddley spinge alle estreme conseguenze. Ne esce, insomma, una versione più rabbiosa e cattiva del Ty che conosciamo, anche se solo per ragioni di sceneggiatura. Tutto comunque, persino la sanguinaria "Oh Mary", è destinato all'appianamento con i dieci lancinanti minuti finali della jam intitolata emblematicamente "Fuzz War", un lungo incubo grottesco e solo strumentale che sa di alienazione senza quartiere, una selva di distorsori in fase terminale che rovescia tutta l'esuberanza precedente in una cupa spirale di disperazione.
Lo scherzo del nome di Andrew Loog Oldham, celeberrimo produttore degli Stones, citato nei credits e sfuggito al filtro della casa discografica, ribadisce in fondo che il tono resta goliardico e l'allegra flottiglia continua a non prendersi troppo sul serio. Un discorso che vale a grandi linee anche per il successivo Twins, in uscita a ottobre a completamento di un'annata memorabile, seppur nella forma di un primo, sostanziale rinculo espressivo, e nei termini di un limite forse non più superabile.
Con quest'ultima fatica, la parola "sdoganamento" dovrebbe aver trovato cittadinanza sulla pagina Wikipedia del ragazzo di Laguna Beach, arrivato a spegnere venticinque candeline sulla sua torta. Nel loro standard i nuovi episodi - nuovamente prodotti da Eric Bauer, ospiti Moothart alla batteria e Brigid Dawson ai cori - si propongono ora come la versione accelerata degli hook pazzeschi di Melted e Goodbye Bread, ora come modalità "bambini accompagnati" di quella stessa fantasmagoria pop drogata che nel recente disco con il gruppo vampirizzava senza remore Black Sabbath, Hawkwind, T. Rex e Stooges, affogandoli poi crudele in una bagna di feedback roventi.
L'isteria dura e pura e i bramiti elettrici hanno dato immediata conferma della loro presenza, e grazie all'Altissimo per ogni singolo peccato escogitato e per ogni vizioso adepto imbucatosi alla festa ("Thank God For Sinners", titolo e brano memorabili). Ed ecco, in tema di dissolutezza gli abusi sulle pedaliere indifese restano un dato difficile da contestare. Il tetano da lamiera delle chitarre non riesce tuttavia a ribadire l'apoteosi per riverberi e grattugie del predecessore, pur prefigurando ancora un discreto sfracello nella resa dal vivo. Ty insiste a cantare da invasato, a travestirsi da monello impertinente, ma dietro il guazzabuglio caciarone da due minuti e via, la sua scrittura si è fatta più consapevole e meno pretestuosa, così come il talento nel gestire il ridotto capitale di hit a disposizione.
Lato A killer, lato B filler, calo vistosissimo a tendere e nessuna vergogna citata nei credits. I gemelli del titolo sono evidentemente eterozigoti. Il tono generale è da psichedelia di grana grossa, ostentatamente incurante di sé quanto astutissima nella sua deliberata assenza di riguardi formali. Fox in the Fuzzbox, perché il ragazzo di oggi ha lo sguardo ingannevole del predatore volpino. Poi certo, seguirlo nelle sue euforiche scorribande studiate a tavolino rimane un sollazzo ancorché epidermico, specie quando capita di imbattersi in corposi assoli degni di un J. Mascis particolarmente arruffato, nel beat da scoppiati e in quelle inconfondibili elettriche slabbrate che puzzano ormai di marchio registrato. Quella di Ty è musica sempre e comunque adulterata e ritemprata seguendo le proprie inclinazioni più malate o la propria gioiosa indole kitsch. Non si spiega altrimenti il sadico détournement applicato all'immancabile drappo beatlesiano, oppure la tipica strafottenza grunge ingollata e rigurgitata in un pastone di polpa aspra e ironia come certe grottesche popsong del vecchio Scott Weiland, destinate da chissà quale dio a sfumare nel solito, matematico singalong ("There Is No Tomorrow").
La sua adorabile e canagliesca weirdness si esprime al meglio nella chiassosa miscela di modernariato sixties, garage-blues da eterno dropout e pitoccheria assortita di marca Woodsist (o Burger, per restare sul personaggio): nell'insieme, una patente da navigato modaiolo abilmente contraffatta, l'arte del futile, del pestone e dello sciroccato, assimilata quando ancora andava a bottega dal frontman dei Thee Oh Sees e dormiva in quel furgone malmesso appena arrivato dal sud. I suoi sogni di adolescente, sembra raccontare Twins, si sono avverati in un altrove meno artefatto, ma anche così ogni prospettiva futura pare preclusa. Non c'è alcun domani, canta lui quando è tempo di congedarsi. Restano invece le schegge taglienti del surf-rock per cuori a grinze. Restano i cocci infranti di una endless summer californiana che ha perso ogni propensione alla magia e tende piuttosto al blando torpore da acidi, all'apatia sfarfallante di una vecchia pellicola sacra ormai irrimediabilmente guasta.
Ty il dormiente
Dieci mesi abbondanti di inattività discografica. Per qualsiasi artista li si potrebbe considerare una pura inezia, un bel respiro tirato giusto per riprendere fiato. Trattandosi di Ty Segall, però, è evidente che la notizia abbia la stessa rilevanza dell'uomo che morde il cane. Quello trascorso tra l'autunno del 2012 e la canicola del Ferragosto seguente è per il cantante californiano un anno di sentimenti contrastanti: da un lato il successo crescente, i riflettori puntati grazie a lui su una scena che, forse, è esistita sempre e solo sulla carta, quindi il trasferimento da San Francisco a Los Angeles per svagarsi e dedicarsi al surf con maggior continuità; a pesare come un macigno sull'altro piatto della bilancia la morte del padre adottivo, con cui il ragazzo aveva da sempre un rapporto speciale, e la conseguente chiusura di ogni contatto nei confronti della madre. Inevitabile di conseguenza il dedicarsi con minor costanza alla scrittura di nuove canzoni, e comprensibile la difficoltà stessa nell'approccio alle proprie passioni.
Non può peraltro sorprendere che Sleeper, l'Lp del ritorno, nato in un contesto di profondo isolamento, parli esplicitamente di perdita e solitudine, riflettendo anche sul piano formale questo particolare clima emotivo. Rabbia e tristezza sono filtrate e stemperate dal folk della West Coast a cavallo tra anni Sessanta e Settanta come dalle più austere declinazioni della musica di Bert Jansch o Neil Young, universi già bazzicati e omaggiati a più riprese nel corso della sua breve carriera seppur trascurati negli ultimi album a più elevato tasso rumoristico. La lavorazione del disco ha assunto così i contorni dell'esperienza terapeutica, sviscerata poi con piglio indolente in una sorta di breviario cantautorale quasi completamente acustico, non privo di un suo strano incanto.
I dieci episodi dell'album rivelano anche a un ascolto superficiale una coesione che nelle sue opere precedenti non si era mai riscontrata. L'impronta è quella di un folksinger di taglio classicista, dall'incedere flemmatico ma sicuro, voce affilata e sofferta, songwriting lineare, limpido e di discreta efficacia. Caratteristiche, queste ultime, congeniali a un artista orientato a osare qualcosa in meno del consueto, e tuttavia più esposte al rischio della monotonia. La sostanziale dimestichezza con cui si muove anche nei ristretti confini di un genere ben poco avvezzo alle facili attrattive ha però per Ty il valore di una patente o di una specie di pilota automatico, dal quale sganciarsi tuttavia - di tanto in tanto, almeno - per non negarsi il piacere di qualche azzardo in più.
Certo, Sleeper non brilla per la varietà delle sue soluzioni ma, come dimostra la bella coda elettrica e vagamente blues di "The Man Man" (una sorsata d'acqua fresca nel deserto, per i fan oltranzisti di Segall), c'è sempre spazio per qualche piccola sorpresa dietro la curva in arrivo. In fondo, non lascia indifferenti neanche il ritrovare la sua chitarra in una piega tanto pacata (esemplare "The Keepers"), a riprova che il Nostro è capace di notevoli suggestioni anche senza calcare troppo la mano o pestare a tutta sulle sue pedaliere.
Anche in veste solista e fortemente ridimensionata, si conferma valido tanto come autore che come intrattenitore: difficile che a un lavoro anomalo e arrivato quasi per caso come questo, di fatto una licenza non richiesta da giocarsi in chiave intimista, il garage-rocker di Laguna Beach chiedesse nulla più di una simile ratifica. Spigliato ma ciondolante con il suo fare un po' abulico, Ty soffre di prevedibilità quando non si inventa nulla che sappia ovviare alla maggior ordinarietà del nuovo abito espressivo. Senza guizzi formali o emozionali, fatica a trasmettere l'urgenza di questa sua piccola deviazione e finisce per annoiare. Capita solo con "Sweet C.C." però, e lo si può archiviare a ragione tra i peccati veniali. Altrove basta invece molto poco per regalare sussulti anche minimi, come una tamburellata sulla chitarra a mo' di essenziale sostegno ritmico per quel picking disadorno e quel canto quasi efebico ("Come Outside"), o come il lusso di un refrain vivace in spazi angusti e frugali ("Crazy"), ideale per riproporre anche nel nuovo contesto scampoli della sua vena obliqua e acidognola (funzionale il falsetto).
Pollice in su, allora, quando fa capolino l'ombra del Lennon di metà anni Settanta ("She Don't Care"), e non è certo un mistero che si tratti di uno dei massimi riferimenti per il giovane californiano: originalità ridotta ma risultato confortante, merito anche della viola di Kristen Dylan Edrich (dei concittadini Mallard), unico ospite dell'album. A vivacizzare la media "sonnacchiosa" dei brani di questa raccolta provvede anche la parentesi sghemba ed elusiva di "6th Street" che, tra l'essenzialità cruda del Beck di "One Foot In The Grave" e improvvise aperture luminose da un passato ormai mitico, riavvicina in maniera significativa il bozzettismo revivalista dell'amico ed ex-sodale White Fence, anche se qui la weirdness pare decisamente più contenuta, meno galoppante. Non manca il diversivo in bassa fedeltà ("Queen Lullabye") che, al di là del comodo (e un po' trito) artificio, si ricorda più che altro per il tono tra l'estatico e il soporifero che nella sua fragilità nemmeno dispiace.
A chiudere i giochi, l'innocuo ma sincero country-western dell'emblematica "The West", approntato senza intenti parodistici ampliando proprio in coda il ventaglio delle formule di un disco minore (ma non malvagio) del repertorio di Segall, che la Drag City (che si aspettava ben altro, ma l'ha appoggiato) ha promosso dal vivo in venue più piccole del solito e con una mellow band (Sean Presley alla chitarra, il redivivo Andrew Luttrell al basso e Charles Moothart alla batteria) formata apposta per l'occasione.
Del tutto inatteso, il successore di Sleeper segna in realtà un evidente ritorno al recente passato. Fuori per Sea Note nell'ottobre del 2013, ancora a cura dell'immancabile Bauer, Gemini non è altro che la riproposizione per intero di Twins (eccezion fatta per "Love Fuzz", assente per ragioni facilmente comprensibili) nella versione embrionale dei demo in acustico. Rispetto all'esuberanza dei feedback nei brani già noti, queste varianti finiscono inevitabilmente per pagare qualcosa per quanto episodi come "Thanks God For Sinners", in una foggia elettrica solo in parte depotenziata e ripulita dall'originale selva di riverberi, riescano comunque più che apprezzabili. Si registra una spogliazione, una messa a nudo che mira al cuore della sua musica, sfrondata degli orpelli più impattanti e del maquillage post-produttivo, per privilegiare la voce e il sobrio arrangiamento, ma che a conti fatti non riesce a legittimare un interesse più che da completisti per un'operazione marginale e tutt'altro che indispensabile.
Offre, è vero, una visuale alternativa sul songwriting del californiano ma non entusiasma mai granché, a parte una "Inside Your Heart" affiliata al psych-rock barocco degli ultimi Oh Sees (con tanto di pianoforte e bramito torvo della chitarra) e una generica morbidezza floreale ("The Hills", la lennoniana "Ghost") negli episodi che ricordano più da vicino l'estemporaneo compagno di viaggio White Fence. Il problema è che brani riusciti come la fragrante "Would You Be My Love", quasi domestica, funzionano perché funzionavano anche le versioni già note, così come fa capolino qualche sbadiglio laddove il materiale era modesto in partenza ("They Told Me Too", una "Handglams" maligna e un po' spenta).
Alla fine della fiera, una riprova che anche nei dischi dello scavezzacollo Ty gli artifici tecnici non sono soltanto un optional quanto un prezioso stratagemma cui fare affidamento in chiave migliorativa e tonificante. In fondo, anche il congedo pallidissimo di "There Is No Tomorrow", solo voce incespicante e ukulele, lo dice senza appelli.
Siamo sempre a ottobre del 2013 e tutto su Ty Segall è già stato detto. Recensirlo sembra essere diventata la più futile tra tutte le attività marginali che un modesto cronista possa accollarsi. Un po' come lasciare quel mozzicone di trama sempre identica sulle paginette usa e getta del settimanale con i programmi televisivi, nell'apprezzata rubrica delle soap. È evidente che occorra il riassunto delle puntate precedenti, ma per una volta faremo bene a stringere il più possibile: straziata dalla morte del padre, la grande speranza del garage statunitense non è riuscita a prendere in mano una chitarra e a scrivere musica per diversi mesi; l'uscita dal tunnel è stata possibile grazie all'esperienza terapeutica di un anomalo disco in solitaria, quasi completamente acustico; per una piena guarigione, il rocker di Laguna Beach ha dovuto però dedicarsi all'ennesimo nuovo progetto collaterale, i Fuzz, fondamentale per ritrovare dentro di sé la gioia pura del rumore. Compagine inedita questa - si diceva - ma solo nominalmente, visto che la squadriglia di stanza a San Francisco è di fatto la stessa già attiva qualche tempo fa sotto la ragione sociale Epsilons, senza il sax di Mikal Cronin e le tastiere di Michael Anderson. Segall non ha mai fatto mistero del proprio amore viscerale per i Black Sabbath e soprattutto per gli Hawkwind, e nell'omonimo Fuzz cerca di trarne il massimo beneficio in termini d'ispirazione, per mettere quel po' di benzina in un serbatoio creativo in evidente riserva.
La partenza è nel segno di una fanfara scurissima, quasi lugubre, che pulsa lenta e sfuma presto in una cavalcata assai misurata. È a questo punto che si consuma quella sorta di esorcismo, con il fuzz (nomen omen) che interviene a esacerbare l'inerzia in chiave hard-rock, facendo il verso ai beniamini sopra citati ma anche ai primi Groundhogs (omaggiati in una B-side), agli Zeppelin e a tanta musica sovraccarica di quarant'anni fa. Il tutto filtrato poi dall'inclinazione grezza e beatamente svaccata di Segall, tra amplificatori che spurgano riverberi in quantità industriale e riguardo per la bella forma prossimo allo zero. Per l'occasione i tre compari rimescolano le carte scambiandosi gli strumenti (a Ty tocca la batteria, al batterista Roland Cosio il basso, mentre il fidato bassista Charlie Moothart imbraccia la chitarra) e questo dovrebbe dirla lunga sullo spirito di un'operazione imbastita esclusivamente per il piacere di fare un po' di casino assieme.
L'impressione più netta, ripensando all'ottimo Slaughterhouse, è che la combriccola non abbia comunque scelto di viaggiare a pieno regime (specie in quanto a distorsioni) e si sia almeno in parte disciplinata, in linea con i precetti di un genere approcciato non senza devozione. Il risultato può ancora suonare allettante ma di certo non è imprescindibile, anzi: un salutare ritorno al clima di ricreazione elettrica per il capobanda (cui non ha alcun senso affannarsi ad attribuire significati o valori ulteriori che, prevedibilmente, nemmeno erano ricercati), un divertissement significativo più per i suoi interpreti che per chiunque altro.
La vitalità esplosiva dell'album uscito solo un anno prima a firma della Ty Segall Band non trova repliche altrettanto convincenti. Qui si alternano con troppa frequenza momenti di discreto dinamismo e rallentamenti vistosi, tortuosità acidognole e prolungati metabolismi proto-metal privi del giusto nerbo, che finiscono per fiaccare l'ascoltatore. Gli episodi in cui il sigillo di Ty pare essere molto più riconoscibile non mancano. Al di là di una curiosa cannibalizzazione del refrain di un vecchio pezzo degli Stiltskin, "What's In My Head?" ricorda ad esempio più di un passaggio su Twins, mentre "Loose Sutures" promette di essere affilata e rumorosa come il meglio del repertorio: se la prima sacrifica la propria vivacità a un moloch sonoro monumentale quanto sornione, la seconda si arena sulle secche di un'improvvisazione noiosa, minata da eccessive lungaggini e dall'autoreferenzialità.
Più avanti c'è spazio per una sudicia tirata quasi post-hardcore ("Preacher"), per un tocco di isteria controllata (i cori di "Raise") e per la chiusura arrembante e imprevedibile della strumentale "One" (che potrebbe essere il manifesto di Fuzz), ma è indubbio che, giunti a questo punto, l'interesse sia già irrimediabilmente scemato. Fan irriducibili a parte, si arriva in fondo un po' provati e nemmeno troppo deliziati, visto il pastone non certo da gourmet che i tre californiani hanno servito.
Con l'attenuante del momento difficile per il leader e la constatazione che i feedback stanno tornando quelli di un tempo (ovvero quelli di appena dodici mesi prima), non resta che dare appuntamento alla prossima puntata del Ty Segall show. Ma prima, una reclame: il 2013 di Segall è l'anno del fuzz in tutti i sensi. La Death By Audio, da lui sempre glorificata per aver creato il suo prediletto Fuzz War, realizza in tiratura più che limitata un pedale che porta la sua firma, il Sunshine Reverberation.
Le manipolazioni del golden boy
Da dormiente a manipolatore in una mossa soltanto. Ty Segall è tipo che alle deviazioni repentine ha abituato da tempo, per quanto i suoi anguilleschi accorgimenti di stile somiglino più a circonvoluzioni di pura facciata che non a rivoluzioni con tutti i crismi. L'occasione per un ripensamento significativo il Nostro l'ha avuta recentemente, a seguito dei cambiamenti importanti (la morte del padre, il cambio di città) di cui si è detto, anche se non c'è stato margine per più prolungati approfondimenti. La parentesi di Sleeper, forse il suo disco più sincero, si è chiusa senza particolari strascichi alla stregua di una semplice pausa sabbatica. Convinto di reggere alla grande l'ennesimo gioioso bluff, il ragazzo ha scelto di indossare maschere nuove, almeno in apparenza, e la giostra è ripartita come se nulla fosse, più spedita che mai.
Con quello scaltro organetto a fare gli onori di casa, Manipulator si presenta - album e title track - con addosso una bella patina polverosa, quasi si trattasse di un gustoso avanzo dalla mitica compilation "Nuggets", dimenticato da Lenny Kaye senza un vero perché. Il revival di seconda mano di "The Singer", recupero delle stimmate bolaniane dopo l'abiura poco credibile degli ultimi due lavori, rafforza la piega passatista di questa nuova fatica, e poco importa se il biondo di Laguna Beach pare aver barattato l'esplosività delirante delle Fender di ieri, Mustang o Jaguar che fossero, per la giustezza vintage un tantino ruffiana di una Gibson Les Paul. Il sound si è irrobustito, ma non nega cittadinanza a una frequente impressione di "non finitezza", di approssimazione da foglio di brutta, da demo. Non si tratta più, tuttavia, della noncuranza del lo-fi degli esordi, né dell'indolenza slacker di quel garage-rock chitarroso che in un lustro o poco più ha reso il suo nome un lucente marchio di fabbrica. L'esperto Chris Woodhouse orienta verso derive psych più pronunciate questo undicesimo capitolo dell'avventura segalliana e bada a conferire una fisionomia molto più corposa alle architetture sonore del golden boy della Bay Area, un po' come fatto ultimamente al servizio dei Thee Oh Sees. E proprio come per la band di John Dwyer, vanno registrati in questo caso il mito dell'uomo solo al comando (i fidati Charles Moothart, Emily Rose Epstein e Mikal Cronin limitano i loro contributi a sporadici camei) e un numero di revisionismo folk-psichedelico vagamente barocco ("Stick Around"). D'altro canto appare però ipersemplificata, rispetto ai colleghi, la scrittura, stilizzata e tutta giocata su automatismi di facile presa.
Se il songwriting si è fatto più agile, banalizzandosi con furbizia e stabilendo un bel contrasto con la stoffa più lambiccata della veste espressiva, a limitare il disco è più che altro il suo carattere pletorico, ridondante, la pesantezza di certi passaggi fin troppo prevedibili oltre alla sua ragguardevole prolissità di doppio Lp (diciassette titoli per un'ora circa, francamente uno sproposito). Poi beh, anche solo a livello di sollecitazioni epidermiche, i momenti godibili non mancano certo. Disinvolto pure in chiave pop, tra prepotenti ritorni di fiamma per il glam e i seventies, Ty va a caccia di nuovi proseliti con un album felicemente populista e reazionario.
Altra suggestione innegabile, accreditata dalla stessa nota stampa, è che Manipulator voglia suonare come una sorta di omaggio all'epopea grunge e a Cobain in particolare: l'irresistibile "It's Over" o il tourbillon in coda a "Feel" ne sono solo le più dirette testimonianze. Scampoli d'ironia ("Who's Producing You?") alleggeriscono ulteriormente una proposta d'intrattenimento che ribadisce a più riprese quest'occhio di riguardo per i primi anni Novanta, ma un'analoga datazione è suggerita dai rari passaggi angosciosi o sinistri (i gorghi elettrici malatissimi di "The Feels" riportano agli Smashing Pumpkins di "Silverfuck"). Aggiungendo a mo' di provocazione (ma neanche troppo) che il passaggio più beatlesiano del lotto ("The Faker") sembra più che altro una (buona) imitazione degli Oasis degli anni d'oro, dovrebbe essere chiaro come Segall abbia gioco facile in quanto a impatto ma non possa lasciare del tutto soddisfatto chi, in tema di Fab Four, lo abbia amato soprattutto per Goodbye Bread.
Languido e persino mellifluo nelle sue pose miagolanti, lo statunitense non commette errori marchiani, è ordinato, ma non sanguina come forse vorrebbe. Il Ty performer smentisce anzi il paroliere di "The Singer", perché più che cantare louder come da asserzione, eccede nei falsetti, sempre troppo frenato dalla sordina, disinnescato per eccesso di autodisciplina, ben al di sotto del suo potenziale di lussuoso primitivista. Con un accompagnamento d'archi particolarmente equilibrato e accattivante, il brano in questione è peraltro tra i più belli della raccolta, anche se non gli è da meno l'implicito omaggio ai Love ("The Clock") che fa tesoro degli arrangiamenti di Cronin e di nuove festonature di viole e violini. È in queste soluzioni ibride, nel dinamismo garantito dagli inserti acustici, che Manipulator riesce più convincente e riporta alla luce tutte le doti del suo creatore. Nei frangenti esclusivamente elettrici, al contrario, c'è forse troppo controllo, il fuzz non è sudicio e abrasivo come potrebbe e, per non scontentare nessuno, si insiste nella ricerca di un giusto compromesso tra cattiveria e accessibilità che, di fatto, resta solo sulla carta: dove pure facciano capolino la sporcizia e il movimento che ci si aspetta dal personaggio ("The Crawler", ad esempio) si è comunque più prossimi ai farraginosi esercizi del progetto Fuzz che non alla pirotecnia hard dell'inarrivabile Slaughterhouse.
Gli spunti interessanti, insomma, ci sono, ma le buone idee finiscono col somigliarsi un po' tutte, come le canzoni. Ed è inevitabile che si arrivi al traguardo un tantino provati e col fiato corto, oltreché tediati dopo qualche buona sensazione iniziale. Il singolo belloccio "Susie Thumb", con il suo refrain paraculo, si erge a emblema dell'intero album.
La critica si sbilancia a definirlo il miglior lavoro firmato da Segall, un endorsement generalizzato che ha il sapore della definitiva consacrazione (ma "sdoganamento" rende meglio l'idea). Che si tratti di opera ambiziosa è fuor di dubbio, i quattordici mesi di gestazione sono inequivocabili (considerato il curriculum di Ty). Difficile però liberarsi dalla convinzione che il Nostro, perfettamente consapevole del proprio talento, abbia scelto la via più facile per affermarlo, e che (si) diverta molto meno di una volta.
Potremmo sbagliarci, ma restiamo convinti che non tutte le ciambelle ipercaloriche del manipolatore californiano siano riuscite col buco, soprattutto questa volta.
La Drag City, intanto, non ha remore a battere il ferro rovente del marchio Ty Segall e appena tre mesi dopo serve alla mensa dei completisti anonimi una nuova antologia di rarità, $ingle$ 2. Si parte dai tre estratti del sette pollici "Spiders" e dall'interessante Ep "I Can't Feel It", ponderato ma visionario, risalente al periodo di Goodbye Bread. Se "Cherry Red" propone un garage-pop ludico, sbrindellato e confusionario, capace di alzare solo gli indici della weirdness, "Hand Glams" è di fatto un demo del brano di Twins con lo stesso titolo, poco più che uno sgorbio sonico affogato nella più lancinante pozza di riverberi ed esacerbato da cori indemoniati; non meno da sciroccati anche "Spiders", malatissimo lato A del medesimo singolo. "Children Of Paul" si conforma invece a uno psych-rock sovraesposto e all'aceto che non dispiace, per quanto si comporti ancora meglio "Falling Hair", obliqua e floreale come diversi degli episodi del quasi omonimo Hair, tra sunshine-pop e psichedelia virata al rancido. "Petting The Dog", cover superpestona di GG Allin, eseguita con buona dose di efferatezza rumorista e uno sproposito di fuzz voracissimi, riporta dritto agli esordi ultrariverberati e in bassa fedeltà del Nostro, ma con in più quell'enfasi hardcore esplorata soprattutto nelle animazioni collaterali.
"Music For A Film 1" proviene da uno split single con Chad & The Meatbodies uscito per Famous Class Records. Si tratta di una bizzarra esplorazione solo strumentale, superflua quanto curiosa, un divertissement che sposa una sorta di tribalismo percussivo agli inserti acidi di un'elettrica in via di ulcerazione. Da un altro split, quello con i Feeling The Love licenziato dalla Permanent nell'annata di grazia 2012, viene ripescata "It's a Problem", buona canzone dal sapore West Coast tardi Sessanta con chitarra jangle e bella sfuriata elettrica in coda. La rilettura di "Femme Fatale", dalla modesta raccolta-omaggio ai Velvet Underground assemblata dalla Castle Face, è canina, dissacrante, miserabile, anarchica, folle e irriverente quanto basta, ma a ben sentire non così incisiva.
Altra rarità col marchio della label dell'amico Dwyer è "Fucked Up Motherfucker", che si lascia ricordare anche per l'elusivo co-protagonismo del sassofono su di giri di Mikal Cronin, un numero quasi prog-rock alticcio e schiumante. È particolarmente numerosa la rappresentanza delle B-side del già citato Twins: "For Those Who Weep", per esempio, ad altissimo coefficiente di malia beatlesiana e sonorità acustiche che riavvicinano ai demo di quello stesso album, poi affastellati in Gemini; o "Mother Lemonade", altro revival sixties che nella seconda facciata del disco non avrebbe sfigurato, pur suonando un tantino scontato e col pilota automatico come buona parte di $ingle$ 2.
L'anno si chiude con il varo della propria etichetta, la sussidiaria Drag City God? Records, che mette subito sotto contratto gli amici Wand. Solo qualche mese più tardi, Segall dà vita all'ennesima band, questa volta assieme a Mike Donovan dei Sic Alps e a Eric Park, già compagno di John Dwyer negli Yikes. Si tratta dei Peacers, che debuttano con uno split single condiviso con Elisa Ambrogio, seguito a stretto giro di posta da un album eponimo (alquanto fiacco) sempre per Drag City, registrato dal solito Eric Bauer e da un Ty che per l'occasione si sobbarca per intero l'onere della sezione ritmica. Tra gli ospiti, la voce femminile dei Thee Oh Sees, Brigid Dawson.
Nel 2015 escono anche due live album. Uno rivolto al passato, "Live In San Francisco", un ideale congedo dalla Bay Area che la Castle Face licenzia a gennaio, attribuito alla rediviva Ty Segall Band; e poi quello più orientato al domani e cointestato all'amico Kyle Thomas (in arte King Tuff), "Live At Pickaton", che la Easy Sound mette in vendita a maggio. Proprio Thomas entrerà in pianta stabile nella sua band qualche mese dopo. Un'annata affollata di attività collaterali si chiude a ottobre con il secondo episodio dell'avventura Fuzz (Fuzz II). Nei due anni trascorsi dall'uscita del primo capitolo con quella ragione sociale, Roland Cosio ha fatto i bagagli e si è aggregato, non si sa se per restarvi, ai Together Pangea. La casella del bassista lasciata vacante da quest'ultimo è stata comunque occupata in un attimo da un altro pregiato alfiere della medesima compagnia di giro, quel Chad Ubovich che ha nel frattempo varato con un notevole esordio omonimo l'avventura dei Meatbodies. Nemmeno il tempo di registrare l'avvicendamento che il motore è ripartito più rombante che mai.
Per quanto si ostini a giocare la sua partita in zona Black Sabbath/Hawkwind/Grateful Dead, sin dalla partenza la band appare più scattante di come la ricordavamo, ben oliati gli automatismi, apprezzabili i cambi di passo, più agile il risultato, al netto della solita propensione elefantiaca al revisionismo rock psichedelico. Riesumato lo stato brado della miglior Ty Segall Band, a impressionare è in particolare il reattore ritmico del terzetto, mentre i bramiti elettrici proliferano ottimi e abbondanti e Ty recita la sua parte con la consueta, felice aderenza al personaggio. La tonicità muscolare resta rimarchevole, persino potenziata, le chitarre si mantengono rigonfie, e pare salutare che ogni tanto il microfono passi di mano, ora a un Moothart osbourniano ("Rat Race", acida e smargiassa quanto basta) ora a Ubovich ("Pipe", col pilota automatico a dirla tutta). Trucidi e se possibile più lerci della loro norma, i Fuzz testimoniano la maggior cattiveria del progetto in questo suo secondo e ben più aspro passaggio. Pregevole, ad esempio, "Pollinate", davvero pungente ma con momenti quasi estatici affogati nel marasma, come pure l'intonazione malata, ammorbata quasi (quando non schizoide) che affiora in "Bringer Of Light", uno dei numeri più teatralizzati del lotto. Per non tacere di come le cantilene da sciroccati di "Burning Wreath" mandino al massacro la loro aura dolciastra, costretta a infrangersi contro le alte onde della muraglia di granito.
Tra le gemme, "Let It Live" può vantare una linea di basso e un refrain assassini, dando forma a un hard-rock al grado zero che promette di conficcarsi nel cranio dell'ascoltatore e di non abbandonarlo per lungo tempo. Ty conduce il suo smaccato populismo e la sua vocetta ruffiana anche in questi lidi, e la resa non può che essere senza condizioni. Con i suoi oscuri presagi, "Say Hello" rilascia invece vaghe suggestioni morrisoniane, prima di essere tuffata in una paradigmatica guazza segalliana. Enfatica, crudele e inesorabile come da copione, merita di essere ascritta tra le pagine memorabili del disco. Lato produzione, i Nostri scelgono di rinunciare all'oracolare Chris Woodhouse e di arrangiarsi da soli, sebbene questo non precluda loro di mostrarsi massicci e spurganti secondo necessità, avvicinando nelle battute conclusive i più celebri affiliati al guru di Sacramento, detonanti ("Sleestak") e visionari ("II") come in "Carrion Crawler / The Dream" o barocchi e sfuggenti come nelle opere più recenti, archi inclusi ("Silent Sits The Dust Bowl").
Per quanto sia coscienziosa, la politica dei tagli ai minutaggi per singola unità, il numero quasi doppio delle tracce vanifica di fatto i benefici di un simile snellimento, portando il disco a quasi un'ora e dieci di lunghezza e allo statuto di doppia raccolta. Il punk scapestrato e marcissimo di "Red Flag" rende bene l'idea di come le cadenze si siano nel frattempo fatte assai più sostenute, anche se questo non può che essere menzionato tra i casi estremi, agli antipodi rispetto alla più canonica e guizzante prospettiva garage di "New Flesh". Nonostante la maggior varietà, è quasi fisiologica la tendenza alla ripetizione delle formule, in una seconda parte per forza di cose meno convincente. Che si tratti di musica suonata per sincera passione, ad ogni modo, non si può negare. Come (quasi) sempre quando si parla di Ty Segall, il lavoro si conferma godibile nella sua interezza e al tempo stesso prescindibile.
Mascherate, rinculi e nuovi progetti
A novembre torna a farsi viva la Goner, che in Ty Rex assembla i due Ep omonimi di cover bolaniane risalenti al 2011 e al 2013, con l'aggiunta di un inedito. La produzione è tendenzialmente più curata e intellegibile, così da non stravolgere il modello, per quanto il marchio di Segall si riconosca lo stesso in determinati dettagli formali (la discreta messe di riverberi, l'intonazione goliardica, un lo-fi comunque mai pregiudicante). Una collezione che rientra a pieno diritto nel computo di quelle tirate su dal californiano più che altro con il prezioso diletto del fan, con la passione e un certo rispetto quasi devozionale. Il disco scorre piacevole, interpretato con il giusto temperamento e suonato in maniera sempre convincente da un Ty evidentemente a proprio agio con sonorità pure più plateali rispetto alla sua media cruda e grezzissima. Quello che emerge è un Segall giocoforza sovraccarico e teatrale, bravo peraltro a non perdersi banalmente in una duplicazione necrofila degli originali dei tardi anni Sessanta e dei primi Settanta, per adattarli semmai al proprio sentire marezzato e gracchiante, che resta la sua cifra più riconoscibile (nonché quella più ancorata all'attualità).
Il Nostro veste la maschera del primitivista in una "Woodland Rock" particolarmente ruspante, snaturandosi un poco, mentre pare divertirsi come un ragazzino in una "20th Century Boy" che calza a meraviglia a quella sua indole da monello impertinente (trovandolo perfetto per il ruolo anche sul piano vocale). Altrove riesce invece più controllato e impostato. Capita in "Salamanda Palaganda" e nella torrenziale "Elemental Child", che restano più fedeli agli originali - deformazioni grottesche incluse - e vincolano maggiormente le sue mosse, pur rappresentando per converso anche un irrinunciabile sfogo per le sue gigionesche velleità di axeman armato fino ai denti di distorsori.
A tendere, Ty Rex si configura come una collezione di brani che mostreranno un'influenza non così marginale (e chissà quanto davvero inconsapevole) sulla lunga gestazione del suo album più prossimo a una simile fonte di ispirazione, glam, hard-rock o progressive che sia, ovvero Manipulator. Un'uscita, anche per questo motivo, abbastanza interessante, orientata soprattutto al recupero del primissimo Bolan (quello dei Tyrannosaurus Rex, scritto ancora per esteso), con la chiusa di "The Motivator", unica ripresa dall'ovvio "Electric Warrior", per una ricreazione sostanzialmente disciplinata e che non eccede mai con le guasconate.
Ma i tempi per un album di inediti intestato al solo Segall sono maturi. Coprodotto da Facundo Bermudez, già al lavoro con No Age, Bleached e Hunx And His Punks, il nuovo Emotional Mugger esce sempre per Drag City nel gennaio del 2016. Di fatto Ty può contare su una nuova backing band chiamata The Muggers che sa, in tutta onestà, di supergruppo: rinuncia a suonare lasciando l'incombenza alle chitarre di Kyle Thomas aka King Tuff, Emmett Kelly aka Cairo Gang e Cory Hanson dei Wand, anche tastierista, mentre la sezione ritmica è appaltata al confermatissimo basso di Mikal Cronin e all'altro Wand, Evan Burrows, dietro i rullanti. Questa del cast non è la sola novità anche se, purtroppo, alla fine della fiera sarà l'unica davvero interessante. Se appare alquanto paracula la strategia pubblicitaria del disco, riversato su vecchie Vhs di "My Life" e "Star Trek II" spedite per posta alla redazione di Pitchfork - proprio il classico esempio di balordaggine studiata a tavolino - è decisamente risibile la carnevalata della maschera da bambino mostruoso (Sloppo, il nome dell'alias) indossata dal Nostro nelle clip di presentazione e nel tour promozionale. E poi, beh, c'è la musica, a riservare le maggiori delusioni.
Segall rimescola le carte con un alt-rock appena screziato di psichedelia ma oltremodo didascalico nel songwriting e minimale in quanto a impronta sonora. Sin dall'iniziale "Squealer", a prevalere è una suggestione ludica ma priva di particolare mordente, incapace di dare profondità alle esplorazioni della sua chitarra, mentre "Californian Hills" lo vede giocare con una certa enfasi teatrale, indossando le maschere del cantante torvo, luciferino, vagamente maudit, e dando l'impressione, per una volta, di prendersi un po' troppo sul serio. Affolla ben presto il disco di bizzarrie espressive mai davvero in quadro, gigioneggia con la sua elettrica tra illogici cambi di passo e tempeste in un bicchier d'acqua che non potrebbero impressionare neanche volendo. E non pare questo il caso, visto che il ragazzo si mostra svogliato persino nel suo disordinato andare alla deriva, senza più tracce di aggressività spendibile né quell'allegra follia da giovane dropout di cui servirsi per contagiare l'ascoltatore. Resta un formulario autistico di cantilene e riff sbridellati, un'insensatezza di fondo adottata come nuova bandiera ma squalificata in partenza per scarsa lucidità.
Un po' tardivamente "Breakfast Eggs" prova a rispolverare vecchi trucchi imparati dal "Magical Mystery Tour", ma più che divertire o meravigliare, lascia un senso di misurato sconforto nel pubblico abituato a ben altra esplosività da parte sua. Il suono è troppo sepolto, ovattato, e l'interpretazione si mantiene volutamente algida, distante, scostante, così anche quelle poche buone idee rimangono arenate nel catalogo delle potenzialità inespresse. Che questo capiti in particolare con "Diversion" può e deve suonare allarmante, visto che è di una cover degli Equals che stiamo parlando, mica di un originale. E anche così non è difficile immaginarsela comunque in una veste rumorosa e sanguinante da Segall dei giorni migliori, tutt'altra cosa rispetto a questo mantra sciroccato e privo d'anima che sa di compitino svolto scientemente senza passione gettando alle ortiche anche il lussuoso cammeo del batterista dei Melvins, Dale Crover.
"Baby Big Man (I Want A Mommy)" spinge alle estreme conseguenze questo sfarfallante radicalismo anche se effettistica vintage e organetti giocattolo rendono quantomeno legittima quella patente weird che il nostro si premura di mostrare a ogni piè sospinto, in modo compulsivo. "Mandy Cream" coglie invece l'occasione di giocarsi il jolly di un pimpante garage-blues anni Settanta in odore di funk all'aceto, a tal punto sbalestrato che nemmeno dispiace. "Squealer Two" ha il merito di tradurre quest'indole malaticcia in una rassegna estatica, persino giubilante, e regala se non altro un refrain da ricordare. Ma la stranezza per la stranezza, tirata in lungo con quell'intonazione eccentrica così forzata, non può che finire per mostrare la corda. Il singolo "Candy Sam" eccede con le inflessioni sinistre della voce e acide della chitarra, saturando ogni spazio senza aggredirlo davvero, come forse sarebbe stato auspicabile. E tutto il disco, a ben sentire, è così, persegue il medesimo schematismo fino all'ovvietà, con l'unica consolazione di non esporsi all'eventuale accusa di scarsa coerenza. Il peggio arriva verso la fine con "W.U.O.T.W.S.", un delirio di spunti non metabolizzati, in continuo ricircolo, utile solo ad amplificare lo sconforto per l'intera operazione (come nelle peggiori farneticazioni sperimentali di Lennon).
Il congedo di "The Magazine" porta a compimento quel clima di alienazione ebete, suggellando in Emotional Mugger il festival dell'inconcludenza, dell'assenza di imbarazzo, del glam psicotico e vanamente resuscitato. Insieme il capitolo più balordo della discografia segalliana e un sostanziale buco nell'acqua.
A proposito di morti richiamati in vita, tra bassissima fedeltà, rumore a tutto campo, chitarre in stato terminale e sistematica noncuranza, ad aprile 2016 ecco la In The Red raschiare il fondo del piccolo barile dell'estemporaneo progetto Traditional Fools, ad allori di nicchia ormai assicurati per il golden boy californiano. Questo Fools Gold è un bel mischione registrato quasi per intero da David Fox: brani del predecessore ripresentati in una variante appena più potabile e decelerata ("Milkman", "Valley Of The Jams") o dal vivo (il paradigma di "Party At My House"), senza rinunciare, almeno sulla carta, a una briciola di quella verve sgangherata e orgogliosamente naif; quattro titoli dall'Ep d'esordio, se possibile anche più scrauso e canagliesco, con la perla "I Got My Baby" e la tirata slacker "Surfin' With The Phantom"; una manciata di rarità della medesima risma o addirittura più oscure e fulminate ("Please", il singolo "Street Surfin'", strumentale e tutto sommato basico), tra cui rivisitazioni da Link Wray ai Damned, e dai Redd Kross ai Love.
Resta apprezzabile qualche episodio più prossimo allo psychobilly, come una malsana "Black Water", o la caricatura weirdo-punk del Ramones-style tratteggiata in "Do You Wanna Touch Me?" (di Gary Glitter l'originale), ma davvero utile, per soppesare l'effettivo valore di questa incarnazione, è una cover proprio dei Mummies già proposta da Ty con gli Epsilons in una versione esplosiva, "Stronger Than Dirt", qui inesorabilmente svilita. L'impatto, in effetti, non è poi così bruciante: l'intonazione tende ancora allo sguaiato e tutto lo scalcagnato baraccone non può che fermarsi all'efferatezza della facciata, a un'epidermide butterata e respingente. Il volume di fuoco, tuttavia, non sembra elevato come nell'originale, e l'ennesima raccolta differenziata di scarti segalliani lascia un po' il tempo che trova. Per tutti coloro che non rientrino nel novero dei più feroci completisti ma siano ugualmente interessati a capire che razza di musica suonasse Ty prima di diventare la piccola celebrità del circo indie che conosciamo, questa collezione raffazzonata va accantonata senza indugi per ripescare piuttosto le due perle degli Epsilons.
Chi invece sia più attratto dal Ty Segall di oggi, magari quello un po' anomalo delle digressioni impreviste, potrebbe trovare pane per i suoi denti nella nuova creatura, denominata Gøggs, al battesimo del fuoco ancora su In The Red nel luglio del 2016 con un Lp eponimo. "Non un side-project, bensì una necessità". Così, stando alle parole del frontman degli Ex-Cult, Chris Shaw, va intesa l'ennesima - e tutto sommato inattesa - nuova incarnazione del Nostro. Le ragioni di una collaborazione nata almeno idealmente nel 2013, quando la band di Memphis fu scelta per aprire diverse date del tour di Slaughterhouse, sono da ricercarsi nell'amicizia di lungo corso tra i due cantanti. L'idea embrionale si è tradotta in un gruppo vero e proprio non appena Segall ha individuato nella propria agenda un'intera settimana libera da impegni e ha proposto a Shaw di registrare nella sua casa-studio di Los Angeles assieme al solito Charles Moothart, lavorando soprattutto su demo strumentali inviate in precedenza al collega del Tennessee. Il californiano ha quindi coniato un'intestazione priva di qualsivoglia significato, ha concesso al suo ospite l'esclusiva del microfono e si è ritagliato un ruolo da chitarrista e produttore, spartendosi i gradi di bassista, tastierista e batterista con il fido Charlie, compagno di mille avventure.
A completare il cast e rendere più avvincente il tutto non poteva proprio mancare il consueto manipolo di ospiti appositamente selezionati dal cerchio magico del divo del garage di oggi: Cory Hanson di Wand, Together Pangea e Meatbodies (basso e synth in una sciroccatissima title track che tanfa piacevolmente di Coachwhips), l'immancabile Mikal Cronin (basso nel singolone "Glendale Junkyard") e la fidanzata di Ty, Denée Petracek dei Vial, assoldata per urlare in una "Final Notice" a dir poco sbrindellata e sfarfallante.
Questa raccolta si impone dal primo istante come un'operina feroce e selvaggia ma in fin dei conti raccomandabile non ai soli estimatori intransigenti delle gesta segalliane, e ha avuto un lusinghiero antipasto nell'episodio che chiude i giochi, "Glendale Junkyard", tra botte di granito e spurgante irruenza. È un disco dedicato alla città di Los Angeles, ispirato dal suo immaginario più deleterio (le discariche a cielo aperto, gli sbirri corrotti da b-movie in "Needle Trade Off") o da band locali che hanno fatto la storia, X e Germs in primis. L'impronta sonora, non per nulla, è smaccatamente hardcore-punk e i Gøggs si configurano come il braccio armato di Segall per una personale rilettura di quel mondo e della sua epica spicciola.
Se l'approccio è credibile, buona parte del merito va a uno Shaw che con i suoi assalti frontali, la sua vena schizoide e quel tono tra l'apatico e l'efferato si rivela davvero perfetto per la parte, mentre il resto della ghenga si industria sullo sfondo con un discreto marasma weirdo-punk. Come già per il progetto Fuzz, la griffe scapestrata e da veri amatori di Ty e sodali si intuisce, ma l'impatto non mediato e la scelta di restare sempre opportunamente un passo indietro depone a favore di una nuova compagnia imbastita evidentemente per passione, con la necessaria purezza, buone dosi di cattiveria e follia, oltre a una chitarra finalmente libera di imperversare nel sudiciume rumorista allo stato brado (la folgorante cartolina di "Smoke The Würm"). A conti fatti, un gioco in cui vincono tutti: Shaw, prossimo al terzo capitolo con i trascurabili Ex-Cult, ottiene la scrittura della vita, Moothart trova il miglior lancio possibile per il suo nuovo disco con il moniker CFM, "Still Life Of Citrus And Slime", mentre Ty, che in territori per lui più canonici sembra avere un po' esaurito la spinta propulsiva e, ancor più, la voglia di divertirsi, con i giusti stimoli in chiave diversiva recupera smalto e sano entusiasmo. Per estemporanea che sia, un'esperienza nient'affatto malvagia.
Quando per un artista non esordiente arriva l’ora del fatidico album eponimo, è automatico pensare che quel disco nasca già con un carico supplementare di considerazioni sul proprio vissuto, qualcosa che era nei propositi del musicista fissare in forma di canzoni non senza una certa urgenza. Questo sarà anche solo un luogo comune, ma non è raro che lavori del genere si presentino ai propri ascoltatori con la fisionomia e le prerogative di un ideale consuntivo. Se il postulato si dimostra quasi invariabilmente valido per i cantautori, è tutto un altro paio di maniche quando lo si riferisca a rocker ironici e scapestrati come Ty Segall. Uno che, non a caso, un’opera intitolata col proprio nome l’aveva già licenziata quasi in avvio di carriera, ma che qui un paio di messaggi significativi sembra comunque lanciarli: in primis la rispolverata alla formazione tipo dei bei giorni che furono, con Charlie Moothart alla batteria e Mikal Cronin al basso, quindi le sorprese rappresentate da una terna di innesti di tutto rispetto, la chitarra di Emmett Kelly e il piano di Ben Boye (entrambi già sodali di Bonnie Prince Billy e attivi nel progetto Cairo Gang) oltre alla produzione affidata nientemeno che a Steve Albini
Il biglietto da visita è una muraglia sonica a dir poco ragguardevole. Albini è evidentemente servito a fare tabula rasa per poter tornare in un certo senso alle origini, a quel sound sporco e diretto ma sgravato dalle tante sovrastrutture hard o prog imbarcate strada facendo. Quello di Ty riprende così a essere un rock a tutto tondo e al grado zero: ruggente, riverberatissimo, mordace e marziale, ancora bello grondante e smargiasso – persino anthemico, stando a quel che azzarda la furibonda opener “Break A Guitar” – ma sostanzialmente depurato dalle fuorvianti elucubrazioni della forma. Con “Freedom” il californiano arriva a rivendicare apertis verbis il diritto alla propria libertà, e la libertà nel suo caso corrisponde proprio alla rutilante veracità degli esordi, alle pedaliere pestate con festante efferatezza, al pentolame degli Epsilons, alla baldanza e all’ingenuità giovanile cui pareva aver rinunciato. Certo il Nostro non sarebbe fino in fondo se stesso se non si concedesse il piacere di qualche marchiana esagerazione, come nei dieci minuti e passa di “Warm Hands (Freedom Returned)”, a mezza costa tra le rumorose digressioni beatlesiane di “Melted” e quell’inesorabile monolite vergato ormai cinque anni fa con la firma della sua Band.
A guidarne le mosse, oggi come allora, un’esaltante disinvoltura oltre a una potenza di fuoco ancora formidabile, a dispetto dei tanti dischi messi a referto nel frattempo. Così nelle sue scorribande belluine ma quanto mai divertite, Segall si diletta tra placide divagazioni e assalti frontali allo stato brado. L’ormai consueto corredo di stramberie si riduce però questa volta a una discontinua galleria di animazioni piuttosto che ai vezzi espressivi abbastanza indigesti del predecessore. L’impostazione del nuovo Ty Segall è piacevolmente didascalica e punta a fissare un breviario senza troppe pretese (ma, proprio per questo, abbastanza convincente), che spazi ad ampio raggio dal power-pop sghembo di “Papers” a quello più marezzato e molto west-coast della gemma “Take Care”, passando per le reminescenze della torbida e scurissima avventura Fuzz (“The Only One”), la barra fissata sul Lennon più rudemente rock’n’roll in un euforico e abrasivo clima sonoro da “non si fanno prigionieri”. La sfuriata garage-punk “Thank You Mr. K”, con tanto di cocci rotti, amplia ulteriormente lo spettro dei riferimenti pur senza piegare mai del tutto verso gli scenari post aperti non senza profitto dall’ultimo nato dei suoi progetti, i Gøggs, restando quindi più orientato all’ebbrezza della goliardata in quanto tale che non ai trastulli del filologicamente corretto, dell’omaggio appassionato e di genere. E se in “Orange Color Queen” riappaiono i cristalli acustici e blandamente psych di Sleeper, fatta salva un’intonazione ben più scanzonata di quella grave e compassata di allora, non manca con “Talkin’” un’insolita paginetta blues all’aceto: la fotografia mossa, come da copertina, di un Ty slabbrato, scazzato, persino invecchiato ma godibile come sempre, con quell’inflessione vagamente crepuscolare e un pianoforte che sembrano lì apposta per suggerirci di non prenderlo troppo sul serio.
No, non si tratta certo di un calcolato tirar le somme, quanto piuttosto di un autoritratto giudicato presumibilmente veritiero, rappresentativo diciamo. Potremmo anche sbagliarci ma l’impressione è che il golden boy e la sua ghenga non si deliziassero così tanto nel registrare un nuovo album da moltissimo tempo, da Goodbye Bread o giù di lì, e per chi ascolta dovrebbe valere lo stesso principio. Il ritorno all’intestazione eponima, forse, si spiega anche e soprattutto così.
Ed eccoci al 2018. Subito una grande sorpresa, il decimo, monumentale album firmato Ty Segall, di fatto un approfondimento del discorso avviato col precedente lavoro eponimo giusto dodici mesi fa. In quel caso c’era l’irrequieta rivendicazione di “Freedom”, mentre a questo giro i richiami alla libertà a tutto campo sono innumerevoli. Non solo proclami comunque, a coronamento di un anno davvero intenso che ha visto Ty convolare a nozze con Denée Petracek dei Vial e pubblicare anche un paio di Ep, il mini “Fried Shallots” e, su Suicide Squeeze, il sette pollici “Sentimental Goblin”. Al suo fianco è allora più che confermata la “Freedom Band”, con la fidata sezione ritmica composta da Charles Moothart e Mikal Cronin, le tastiere di Ben Boye e la chitarra “sfidante” dell’altro Cairo Gang, Emmett Kelly, cui si aggiungono i latrati della consorte in “Meaning” e le percussioni del vicino di casa Fred Armisen. Autentica variabile impazzita di Freedom’s Goblin sono tuttavia i fiati, che aprono improvvise brecce soul ma non disdegnano occasionali puntate in territori jazz irranciditi e quasi no-wave (il sax di Cronin in “Talkin 3”, che richiama James Chance And The Contortions).
La dedica alla bassotta Fanny che apre le danze accentua proprio questa propensione a un protagonismo meno cervellotico o egocentrico e più da gran maestro di cerimonie: la consueta elefantiasi seventies del Nostro, sciorinata però con un più genuino entusiasmo e al netto della spocchia che fu, di quando in quando. Caleidoscopico e incasinato, gioiosamente derivativo, intensamente classic-rock, il disco si ammanta della purezza che al pur celebrato Manipulator era mancata e ha il merito di imbrigliare l’enfasi luculliana e la fame onnivora del californiano in maniera salutare, mantenendo costante una tensione che ribolle, magari sotterranea, e che permette alle canzoni di pulsare con sufficiente vitalità anche laddove parrebbero prevalere i soliti, eccentrici, esercizi di stile: a tratti sbrindellate, più spesso infettate da un bizzarro gusto per la contaminazione, queste si confermano sempre sfuggenti e sopra le righe, emanazione di un’inventiva esercitata finalmente a briglia sciolta. Prova ne è la festosa alienazione messa in scena – tra la sghemba isteria degli ottoni e quel coro gospel pure all’aceto – da “The Main Pretender”, di fatto rovesciando la tronfia (e autoreferenziale) retorica di quell’unico, illustre, predecessore in formato doppio.
Registrato in cinque diversi studi tra cui quello ricavato nel proprio garage a Los Angeles, ancora sotto la supervisione di Steve Albini, da più parti Freedom’s Goblin è stato salutato come il “White Album” di Segall, e in effetti le reminescenze beatlesiane anche stavolta non mancano (si pensi solo a titoli come “Cry Cry Cry”, evidentemente un fragile omaggio a George Harrison). Nel loro scorrere invadente e disordinato, questi debiti rivelano ora un ché di trionfalmente irregolare, uno spleen incontenibile e incline all’aberrazione che ci si aspetterebbe piuttosto dall’amico e mentore John Dwyer (“When Mummy Kills You”). I Fab Four si riaffacciano poi col dolente intimismo di “Rain”, che a dirla tutta sembra voler teatralizzare l’introversione del vecchio Sleeper attraverso un impianto assai più robusto, giocando con buona personalità sul registro melò quasi ci trovassimo al cospetto di un consumato cantautore. Nel rendere esplicita proprio questa citazione, i dodici minuti conclusivi di “And, Goodnight” si incaricano di chiudere una dolorosa parentesi lunga un lustro con una rilettura visionaria e lancinante di quella vecchia title track.
Tra frattaglie percussive e luride elettriche à la Prince, la cover disco-funk di “Every 1’s A Winner” degli Hot Chocolate spinge l’esplorazione verso un revival insudiciato e Beck-iano anche piuttosto trottante, mai svilito in trito macchiettismo. La bolaniana “My Lady’s On Fire” marca un deciso ritorno in zona Goodbye Bread, pur evitando di calcare sulla perfezione easy-listening di allora e anzi improntando tutto alla divagazione, una jam ricca di felici turgori, smaliziata e amabilmente decorativa. Con una maggior propensione al prog floreale rispetto alle spacconate hard dei progetti collaterali, Ty ritrova la necessaria concretezza in numeri di assoluta bravura come “Alta”, scorrevoli e masturbatori quanto basta ma senza più tradire la pressione del talentino eternamente a caccia di conferme. Passati i trenta, Segall sembra davvero più adulto e più libero come artista, meno vincolato dalle impressioni attese, più a suo agio nell’imperversare senza più ombra di autocompiacimento proprio nel disco che sognava di registrare da chissà quanto: meno forzature da smargiasso, caos rumoroso disciplinato a dovere, più incanti alla buona e senza pretesa d’infallibilità artistica. Apoteosi di questa inedita prospettiva, imperfetta ma che sa comunque di conquista, è la ballad-manifesto “I’m Free”, magistralmente contrappuntata da una “5 Ft. Tall” parimenti catartica e distensiva.
Dal glam alle inevitabili scorie garage-psych qua e là presenti, il biondo di Laguna Beach si tiene fuori dalle rigide costrizioni di genere sfoderando in compenso un eclettismo e una weirdness che, nei frangenti più inclini alla sperimentazione, si rivelano degni del genio bastardo dei Ween. A penalizzare un album di rara franchezza è forse solo la sua natura smisurata, non certo propensa alla sintesi, anche se nell’insieme Freedom’s Goblin suona comunque più coerente di quanto si sarebbe indotti a immaginare in virtù dei tanti spunti, spesso contraddittori. A fare da collante, la disinvoltura di un interprete che appare davvero in pace con se stesso e con i propri vezzi capricciosi, la cui voce a tratti si miniaturizza in falsetti, a tratti si rigonfia come per dare ulteriore fiato a scorribande che già fanno della fisicità prorompente un marchio, quando non scelga piuttosto di esacerbarsi o lacerarsi. Ad andare in scena, più che altro, è l’amore per l’eccesso espressivo, in uno scorrere tortuoso e nondimeno rasserenato che apre a una corrispondenza fenomenale tra l’uomo e l’artista. Così nella sua strizzata d’occhio alla Band, la giostra di “The Last Waltz” si presenta alticcia e dolceamara, ma anche gaia e pungente come la vita stessa, e Ty ritrova in un sol colpo l’urgenza e lo spirito incontaminato dei suoi primi passi.
L'estate del 2018 si rivela il momento ideale per rispolverare la collaborazione con Tim Presley, sei anni dopo Hair e quando più nessuno si attendeva l'eventualità del ritorno. Un disco a due, scritto e suonato davvero a quattro mani, per darci a bere ancora una volta che gli opposti si attraggono. Potremmo cascarci se non li conoscessimo a sufficienza e non sapessimo a che grado di affinità abbiano saputo regolare in passato il rispettivo estro. Certo in tutto questo tempo qualcosa è cambiato per forza: il primo – iperattivo – ha fatto artisticamente diversi passi avanti mentre il secondo sembra aver più che diradato gli impegni, non esce con un lavoro intestato al solo White Fence dal 2014 ma si è tenuto occupato pubblicando due album come Drinks in sodalizio con l’eccentrica gallese Cate Le Bon, il secondo dei quali, “Hippo Lite”, giusto quella primavera. E allora ve bene, si ignorino le tante analogie stilistiche tra i due interpreti e si assecondi pure l’immagine promozionale scattata da Denée Petracek, la signora Segall, con la bassottina Fanny e il soriano Clifford in braccio ai rispettivi padroni.
Introdotto proprio dalle animazioni sunshine-freak-folk che ti aspetteresti, Joy parte subito nel segno di un affastellamento disordinato di impressioni pop. L’incarnazione più beatlesiana ma imbronciata e amarognola del trentunenne di Laguna Beach prende presto il sopravvento assieme all’eclettismo d’ordinanza e una buona verve elettrica, pronta peraltro a venir sconfessata da una serie di bozzetti in apparenza più quieti, in realtà con tutta l’irrequietezza del caso tenuta latente e sempre a un passo dal manifestarsi. Si registrano in ordine sparso alcune buone suggestioni come nello spigliato e velenoso jangle-pop di “Body Behavior”, ma l’insieme appare davvero troppo dispersivo e sbrindellato per poter replicare il felice miracolo di “Hair”. Ne vien fuori un’opera giocoforza più autoreferenziale e discontinua, anche se non malvagia, che lascia prevalere la congenita propensione al frammento di White Fence: tanti episodi anche curiosi ma sfilacciati, come l’acidula “Good Boy”.
Accanto a quella che ha tutta l’aria di una simpatica citazione dalla precedente uscita a due (“Do Your Hair”) o a una “Hey Joe, Where You Going With That?” che pare la perfetta testimonianza del Segall giovane, pezzente, rancido e sinistro (sulla falsariga del primissimo Beck) ma in fondo pure un tantino zoppicante e dedito alla weirdness a tutti i costi, ecco gli intermezzi rumoristi senza capo né coda, gioiellini buttati un po’ via, ancora in pieno revival sixties (“A Nod”), parentesi lo-fi da scavezzacollo che lasciano il tempo che trovano e divertono esclusivamente chi suona (“A Grin Without Smile”) o spacconate all’insegna di un ottuso garage-punk che ricorda quello dei Party Fowl e aumenta oltre il dovuto il tasso di rumenta (“Other Way”). L’unico passaggio lungo, “She Is Gold”, ha l’aspetto di una jam alquanto annoiata e prevalentemente strumentale che si gioca, senza successo alcuno, la carta dell’improvvisazione. Nelle battute conclusive la carina (ma un po’ abulica) “My Friend” e la puntata ludica di “Tommy’s Place” non hanno modo di riscattare un lavoro fuori fuoco e senza costrutto come “Joy”, il rovescio della medaglia di Freedom’s Goblin per come l’eccessiva libertà dimostri di poter penalizzare le oneste velleità di Ty, qualora risulti male indirizzata. Un disco, in definitiva, meno coerentemente e meno festosamente psichedelico del suo predecessore, più adatto ai fan accaniti e ai completisti che non ai tiepidi estimatori occasionali dell’uno o dell’altro partito. Cane o gatto, fa lo stesso.
Ma il 2018 non finisce certo qui: arrivano anche una nuova collaborazione con il progetto GØGGS (Pre Strike Sweep), il resoconto di un'esibizione tenuta presso la galleria d'arte di Los Angels Crying Clover (Orange Rainbow, edito si cassetta in appena 55 esemplari), una raccolta di cover, Fudge Sandwich, e l'omonimo esordio di una band chiamata C.I.A., nella quale Ty suona con la moglie Denee Segall ed Emmet Kelly dei Cairo Gang.
In Fudge Sandwich, pubblicato il 26 ottobre, Segall dimostra di saper marchiare a fuoco brani altrui attraverso il suo riconoscibile stile, lanciandosi in sfrenati assoli di chitarra che rendono personale persino un evergreen come “I’m A Man” dello Spencer Davis Group di Stevie Winwood, accelerando all’impazzata il mito dei Grateful Dead in “St. Stephen” e nobilitando il kraut-prog degli Amon Duul II di “Archangel Thunderbird”. I momenti più godibili arrivano in corrispondenza dei brani più tirati, versioni che sarebbero potute tranquillamente uscire dalla sua penna: l’indiavolata “Hit It And Quit It” dei Funkadelic, resa a colpi di fuzz, la sguaiatissima “The Loner” di Neil Young, accelerata a più non posso, un’indiavolata “Rotten To The Core” che trasforma gli anarco-punk inglesi Rudimentary Peni – band senz’altro da recuperare - in contundenti idoli stoner.
Ma come non ammirare la capacità di assomigliare a John Lennon nella “Isolation” che fu proprio dell’ex Beatles, con la genialata di mettere la chitarra al posto del pianoforte dell’originale? Ty Segall non ha paura di confrontarsi con i mostri sacri del passato: ciò che realizza non è la sbruffonata dell’esordiente a caccia del colpo a effetto per cercare visibilità, bensì l’omaggio messo a fuoco da un artista oramai considerabile sul medesimo livello. Un filino di noia affiora in corrispondenza dei brani meno sfrenati (“Class War” dei Dils) o affrontati con piglio acustico (“Pretty Miss Titty” dei Gong, “Slowboat” degli Sparks) oppure quando rielabora in maniera non brillantissima la “Lowrider” dei War. Ma Ty gioca e si diverte un mondo, e fa divertire l’ascoltatore, selezionando undici cover che hanno anche il pregio di farci recuperare gli splendidi originali, molti dei quali giacevano colpevolmente da anni in fondo alla memoria. L'infinita gioia di sentir suonare un grande musicista con rispettosa irriverenza.
Il 2019 si apre con la pubblicazione di un disco dal vivo, Deforming Lobes, selezione da tre date tenute al Teragram Ballroom di Los Angeles nel gennaio 2018. Del mastering si è occupato Steve Albini, il quale ha contribuito a conferire al suono la potenza che possiamo percepire, perseguendo la (condivisibile) scelta estetica di porre in evidenza più le canzoni che il pubblico, spostato in secondo piano nel mix finale.
Otto tracce di grande energia, che evidenziano il lato più "heavy" di Segall, spaziando dalle strutturate jam “old school” “Warm Hands” e “Love Fuzz” (non a caso poste agli estremi della tracklist) ai fracassoni brani che bruciano violentemente nello spazio di poco più di due minuti (“Squealer”, “Breakfast Eggs”, “The Crawler”, “They Told Me Too”).
Il 2 agosto dello stesso anno è la volta di First Taste, con il quale il genietto californiano compie un doppio miracolo: da un lato riesce a conservare il caratteristico suono elettricamente garage pur mettendo da parte le chitarre (questa volta si dedica alla batteria), dall’altro espande ulteriormente i propri già ampissimi orizzonti, aggiungendo screziature inedite. Sbocciano così il gospel psichedelico racchiuso in “Ice Plant”, traccia a cappella che richiama i Beatles di “Because”, le atmosfere bucoliche sottolineate dal mandolino in “The Arms” e le incursioni di fiati e strumenti poco convenzionali che colorano “Whatever” e gran parte del resto del disco.
Non mancano i consueti assalti a colpi di fuzz nell’iniziale “Taste”, le sane mazzate ritmiche nella speditissima “The Fall” (una sorta di “Brianstorm” retro posizionata negli anni 60 con tanto di solo di batteria), gli atteggiamenti più sperimentali nei due brevi atti di “When I Met My Parents” e la digressione strumentale che arricchisce “Self Esteem”. Se va riconosciuto che siamo distanti dal caleidoscopio onnicomprensivo che fu “Freedom’s Goblin”, First Taste mostra comunque ulteriori evoluzioni sonore, oltre a qualche bel colpo di genio, come nella conclusiva “Lone Cowboys” che si sviluppa fra aromi pseudo balcanici, visioni di Zappa e glam alla Bolan. Inafferrabile Segall. Incatologabile.
All'inizio di agosto del 2021, Segall pubblica a sorpresa, senza alcun preavviso, Harmonizer, diffuso inizialmente soltanto sulle principali piattaforme digitali, e dall'ottobre successivo reso disponibile anche in formato fisico. Segall ha co-prodotto e co-mixato "Harmonizer" assieme a Cooper Crain, presso gli Harmonizer Studios di Topanga, in California. Hanno partecipato alle registrazioni Denée Segall, che ha scritto i testi e cantato in “Feel Good”, occupandosi anche dell'artwork, e diversi membri della Freedom Band: il bassista Mikal Cronin, il batterista e percussionista Charles Moothart, il chitarrista Emmett Kelly e il pianista Ben Boyer.
Harmonizer non assicura particolari nuovi colpi di genio, ma si tratta pur sempre di un lavoro che si pone n scia alle sue produzioni migliori, pur mancando dello spunto determinante per agguantare l’eccellenza. “Whisper” ed "Eased" rappresentano un buon inizio, dopo la breve introduzione strumentale di “Learning”, ma è nella seconda metà che il disco riserva i frangenti migliori. Che arrivano in particolare con la scarica adrenalinica di “Waxman” - degna erede dei migliori momenti dei Fuzz, e con la già citata “Feel Good”, che grazie all’apporto della voce femminile fa segnare una significativa discontinuità. In tutto 35 minuti di sano psych-rock, genere nel quale Segall è oramai un’autorità globale, e che ne confermano lo status di autorevolezza e rispettabilità nel circuito di appartenenza.
Nel 2022, dopo aver completato la colonna sonora di "Whirlybird", Segall tenta un percorso alternativo: lasciare un attimino in soffitta fuzz, chitarroni e psichedelia lisergica, per elaborare dieci tracce in prevalenza acustiche. Il risultato è Hello, Hi, nel quale il rocker californiano combina gli aromi glam di Bolan con quelli flower power di Donovan, aggiungendo spruzzatine di Neil Young e Beatles versante Harrison, rimasticando il tutto a proprio uso e consumo e omaggiando i Mantles con la cover di “Don’t Lie”.
Segall suona quasi tutti gli strumenti, nel proprio studio, con pochi contributi apportati da fedeli collaboratori, fra i quali Mikal Cronin, protagonista del solo di sax nella seconda parte di “Saturday”. Armonioso e introspettivo, concepito all’insegna della semplicità, pur nella sua costante ricerca dell’elemento dissonante, Hello, Hi è una celebrazione acoustic-folk che non lascia fuori dalla porta il furore del suo autore. Inevitabile quindi che le chitarre elettriche si riaffaccino, in maniera decisa nell’imperiosa title track, e più controllate in “Looking At You” e “Saturday, Pt. 2”. Segall ricerca l’imprevedibilità senza andare a discapito dell’energia, in un leggero e piacevolissimo lavoro di transizione.
Due anni dopo Segall torna in pista con il suo progetto solista, sfornando la sua quindicesima e lunga fatica Three Bells (2024). L’opera riparte dalle sonorità di ispirazione psych-folk sperimentate precedentemente, qui con uno sguardo rivolto all’operato dei Neutral Milk Hotel, mescolandovi a piacimento una moltitudine di influenze di stampo rock progressivo, post-punk, jazz-rock, hard-rock e le immancabili sferzate garage-rock. Per quanto concerne le poche collaborazioni presenti, squadra che vince non si cambia: il polistrumentista californiano suona gran parte degli strumenti su disco, avvalendosi del supporto di Cooper Crain alla produzione e del contributo dei fedelissimi Emmett Kelly (basso e chitarre), Mikal Cronin (basso), Charles Moothart (batteria), Ben Boye (tastiere) e Denée Segall.
Il golden boy di Laguna Beach cala immediatamente l’asso in prima mano: la sezione ritmica che scandisce l’intro folkeggiante dell’articolata “The Bell” prende forza poco a poco, si increspa contro i riff meccanici di chitarra e incorpora dettagli tipici del prog-rock armonico dei Genesis degli esordi e picchi garage in chiusura, attestandosi come uno dei migliori pezzi del lotto. Il prosieguo avviene su una scia concettuale affine, tra i crescendo psichedelici spinti dalle tastiere, dai fraseggi di chitarra e dai cori rétro di “Void”.
Ingranano gradualmente i guizzi elettrici sghembi di “I Hear”, che sfocia in rimandi stoner che fanno eco ai Queens Of The Stone Age, continuando sulla linea hard-rock con l’incedere ripetitivo e il basso prepotente di “Hi Dee Dee”, che scivola tra passaggi in direzione Cream e Beck, Bogert & Appice verso un finale che ha per protagonista un guitar-riff whitiano. Cambia leggermente passo “My Best Friend”, che punta sull’accoppiata basso-batteria, adottando sonorità post-punk, mentre le progressioni malinconiche di “Reflections” aprono alla magnetica “Move”, dove a prendere la parola tra rullate e poliritmi è Denée, scontrandosi con una chiusura brusca. La bizzarra “Eggman” ondeggia su riff e versi sbilenchi, dissolvendosi in una nuvola di rumore e cedendo il passo a “My Room”, trainata da toni fuzz e un acido assolo di chitarra in coda; ad essa fa seguito la pesante “Watcher”, che riprende il mix folk-progressive-garage.
Alle prime avvisaglie di “Repetition” si potrebbe dire nomen omen, poiché da qui in avanti l’ultima manciata di brani (di natura più sperimentale) appare superflua e non sembra aggiungere notevoli colpi di scena all’opera, finendo solo per diluirla. Si susseguono i soliti incastri ripetitivi all’interno di “To You”, che viaggia su chitarre acustiche e barlumi sintetici, i vezzi di memoria prog di “Wait”, conditi da nuvole elettriche e altre strizzatine d’occhio a Jack White in coda; gli esercizi di stile sulla vacua “Denée” e la chiusura acustica a due voci di rimando a “Hello, Hi”, “What Can We Do”.
Il percorso di un’ora e cinque minuti di Three Bells effettua la sua partenza da un livello alto con momenti validi e ottime idee, sia in materia di sound sia di temi trattati, come l’amore, l’amicizia e la natura dell’io, perdendosi tuttavia in qualche pedanteria di troppo, soprattutto nell’ultima fase.
Cosa ci riserverà in futuro questo "Piccolo Cesare" del garage-rock contemporaneo non è facile pronosticarlo. Forse l'ennesima svolta rischiosa, ipotesi attendibile per uno incapace di stare fermo nella stessa mattonella espressiva per più di due turni. Forse l'avvio di un nuovo ciclo ripartendo da capo, visto che le piste nelle sue corde pare averle battute già tutte. O forse, chissà, la fantomatica band in combutta con John Dwyer (magari prodotta da Chris Woodhouse, perché no?) vaticinata a suo tempo dal boss della In The Red, Larry Hardy, una chimera che per gli appassionati del genere sa davvero di oro alchemico. Staremo a vedere: il serial segalliano continua...
Contributi di Claudio Lancia ("Fudge Sandwich", "Deforming Lobes", "First Taste", "Fuzz III", "Harmonizer", "Hello, Hi"), Martina Vetrugno ("Three Bells")
TY SEGALL | ||
Horn The Unicorn(Wizard Mountain, 2007) | 5 | |
Ty Segall (Castle Face, 2008) | 7 | |
Ty Segall / Black Time split(Telephone Explosion, 2009) | 6,5 | |
Lemons(Goner, 2009) | 6 | |
Melted(Goner, 2010) | 7,5 | |
Goodbye Bread(Drag City, 2011) | 7 | |
Singles 2007-2010(Goner, 2011) | 7,5 | |
Twins(Drag City, 2012) | 6 | |
Sleeper(Drag City, 2013) | 6,5 | |
Gemini(Sea Note, 2013) | 5,5 | |
Manipulator(Drag City, 2014) | 6,5 | |
$ingle$ 2 (Drag City, 2014) | 6 | |
Ty Rex(Goner, 2015) | 7 | |
Emotional Mugger(Drag City, 2016) | 5 | |
Ty Segall (Drag City, 2017) | 7 | |
Freedom's Goblin (Drag City, 2018) | 7,5 | |
Fudge Sandwich (In The Red, 2018) | 6 | |
Orange Rainbow (Drag City, 2018) | ||
Deforming Lobes (live, Drag City, 2019) | 7,5 | |
First Taste (Drag City, 2019) | 7 | |
Harmonizer (Drag City, 2021) | 6,5 | |
Whirlybird (soundtrack, Drag City, 2022) | ||
Hello, Hi (Drag City, 2022) | 6,5 | |
Three Bells (Drag City, 2024) | 6,5 | |
TY SEGALL BAND | ||
Live In Aisle 5(Southpaw, 2011) | 7,5 | |
Slaughterhouse(In The Red, 2012) | 7,5 | |
Live In San Francisco(Castle Face, 2015) | 7 | |
TY SEGALL & MIKAL CRONIN | ||
Reverse Shark Attack(Burger, 2009) | 6,5 | |
TY SEGALL & WHITE FENCE | ||
Hair(Drag City, 2012) | 7,5 | |
Joy(Drag City, 2018) | 5,5 | |
EPSILONS | ||
Epsilons(Retard Disco, 2006) | 7 | |
Killed 'em Deader 'n A Six Card Poker Hand(Retard Disco, 2007) | 7,5 | |
THE TRADITIONAL FOOLS | ||
The Traditional Fools(Wizard Mountain, 2008) | 6,5 | |
Fools Gold (In The Red, 2016) | 5,5 | |
PARTY FOWL | ||
Self Titled Cassette(Dementoid, 2008) | 4,5 | |
Party Fowl Ep(Post Present Medium, 2008) | 5 | |
THE PERVERTS | ||
The Perverts Ep(Captcha, 2009) | 6 | |
FUZZ | ||
Fuzz(In The Red, 2013) | 6 | |
Fuzz II(In The Red, 2015) | 6,5 | |
III (In The Red, 2020) | 6,5 | |
GØGGS | ||
Gøggs(In The Red, 2016) | 6,5 | |
Pre Strike Weeps (In The Red, 2018) | ||
PEACERS | ||
Peacers(Drag City, 2015) | 5,5 | |
C.I.A. | ||
C.I.A. (In The Red, 2018) | ||
Surgery Channel (In The Red, 2023) |
Teeny Boppers | |
Street Surfin' | |
Pretty Baby (You're So Ugly) | |
Cents | |
Girlfriend | |
Goodbye Bread | |
Where Your Head Goes | |
My Head Explodes | |
Time | |
I Am Not A Game | |
Scissor People | |
The Hill | |
Thank God for Sinners | |
The Man Man | |
Raise | |
Fourth Dream | |
Manipulator | |
The Singer | |
Emotional Mugger | |
Candy Sam | |
Californian Hills | |
Break A Guitar |
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