Dieci mesi abbondanti di inattività discografica. Per qualsiasi artista li si potrebbe considerare una pura inezia, un bel respiro tirato giusto per riprendere fiato. Trattandosi di Ty Segall, però, è evidente che la notizia abbia la stessa rilevanza dell’uomo che morde il cane. Quello trascorso tra l’inizio dello scorso autunno e la canicola dell’ultimo ferragosto è stato per il cantante californiano un anno di sentimenti contrastanti: da un lato il successo crescente, i riflettori puntati grazie a lui su una scena che, forse, è esistita sempre e solo sulla carta, quindi il trasferimento da San Francisco a Los Angeles per svagarsi e dedicarsi al surf con maggior continuità; a pesare come un macigno sull’altro piatto della bilancia la morte del padre adottivo, con cui il ragazzo aveva da sempre un rapporto speciale, e la conseguente chiusura di ogni contatto nei confronti della madre. Inevitabile di conseguenza il dedicarsi con minor costanza alla scrittura di nuove canzoni, e comprensibile la difficoltà stessa nell’approccio alle proprie passioni. Non può peraltro sorprendere che l’Lp del ritorno, nato in un contesto di profondo isolamento, parli esplicitamente di perdita e solitudine, riflettendo anche sul piano formale questo particolare clima emotivo. Rabbia e tristezza sono state filtrate e stemperate dal folk della West Coast a cavallo tra anni 60 e 70 come dalle più austere declinazioni della musica di Bert Jansch o Neil Young, universi già bazzicati e omaggiati a più riprese nel corso della sua breve carriera seppur trascurati negli ultimi album a più elevato tasso rumoristico. La lavorazione di “Sleeper” ha assunto così i contorni dell’esperienza terapeutica, sviscerata poi con piglio indolente in una sorta di breviario cantautorale quasi completamente acustico, non privo di un suo strano incanto.
I dieci episodi del disco rivelano anche a un ascolto superficiale una coesione che nelle sue opere non si era mai riscontrata prima. L’impronta è quella di un folksinger di taglio classicista, dall’incedere flemmatico ma sicuro, voce affilata e sofferta, songwriting lineare, limpido e di discreta efficacia. Caratteristiche, queste ultime, congeniali a un’artista orientato a osare qualcosa in meno del consueto, e tuttavia più esposte al rischio della monotonia. La sostanziale dimestichezza con cui si muove anche nei ristretti confini di un genere ben poco avvezzo alle facili attrattive ha però per Ty il valore di una patente o di una specie di pilota automatico, dal quale sganciarsi tuttavia – di tanto in tanto, almeno – per non negarsi il piacere di qualche azzardo in più.
Certo “Sleeper “ non brilla per la varietà delle sue soluzioni ma, come dimostra la bella coda elettrica e vagamente blues di “The Man Man” (una sorsata d’acqua fresca nel deserto per i fan oltranzisti di Segall), c’è sempre spazio per qualche piccola sorpresa dietro la curva in arrivo. In fondo non lascia indifferenti neanche il ritrovare la sua chitarra in una piega tanto pacata (esemplare “The Keepers”), a riprova che il Nostro è capace di notevoli suggestioni anche senza calcare troppo la mano o pestare a tutta sulle sue pedaliere. Anche in veste solista e fortemente ridimensionata, si conferma valido tanto come autore che come intrattenitore: difficile che a un lavoro anomalo e arrivato quasi per caso come questo, di fatto una licenza non richiesta da giocarsi in chiave intimista, il garage-rocker di Laguna Beach chiedesse nulla più di una simile ratifica.
Spigliato ma ciondolante col suo fare un po’ abulico, Ty soffre di prevedibilità quando non si inventi nulla che sappia ovviare alla maggior ordinarietà del nuovo abito espressivo. Senza guizzi formali o emozionali, fatica a trasmettere l’urgenza di questa sua piccola deviazione e finisce per annoiare. Capita solo con “Sweet C.C.” però, e lo si può archiviare a ragione tra i peccati veniali. Altrove basta invece molto poco per regalare sussulti anche minimi, come una tamburellata sulla chitarra a mo’ di essenziale sostegno ritmico per quel picking disadorno e quel canto quasi efebico (“Come Outside”), o come il lusso di un refrain vivace in spazi angusti e frugali (“Crazy”), ideale per riproporre anche nel nuovo contesto scampoli della sua vena obliqua e acidognola (funzionale il falsetto). Pollice in su, allora, quando fa capolino l’ombra del Lennon di metà anni Settanta (“She Don’t Care”), e non è certo un mistero che si tratti di uno dei massimi riferimenti per il giovane californiano: originalità ridotta ma risultato confortante, merito anche della viola di Kristen Dylan Edrich (dei concittadini Mallard), unico ospite dell’album.
A vivacizzare la media “sonnacchiosa” dei brani di “Sleeper” provvede anche la parentesi sghemba ed elusiva di “6th Street” che, tra l’essenzialità cruda del Beck di “One Foot in the Grave” e improvvise aperture luminose da un passato ormai mitico, riavvicina in maniera significativa il bozzettismo revivalista dell’amico e ex-sodale White Fence, anche se qui la weirdness pare decisamente più contenuta, meno galoppante. Non manca il diversivo in bassa fedeltà (“Queen Lullabye”) che, al di là del comodo (e un po’ trito) artificio, si ricorda più che altro per il tono tra l’estatico e il soporifero che nella sua fragilità nemmeno dispiace.
A chiudere i giochi, l’innocuo ma sincero country-western dell’emblematica “The West”, approntato senza intenti parodistici ampliando proprio in coda il ventaglio delle formule di un disco minore (ma non malvagio) del repertorio di Segall, che la Drag City (che si aspettava ben altro, ma l’ha appoggiato) ha promosso dal vivo in venue più piccole del solito e con una band formata apposta per l’occasione.
13/10/2013