Un grande, vuoto gioco trasudante coolness: non si capisce bene se, avvicinando la propria produzione musicale a questa descrizione, Ty Segall stia in qualche modo raggiungendo il proprio ideale, quello di raccontare l'irrealtà della vita californiana, colorata e piatta come una tavola da surf. Sarebbe una linea "critica" assai labile questa; più ragionevole sostenere che siamo di fronte a una sovraproduzione che va forse oltre le intenzioni dello stesso Ty.
Questo è, infatti, il secondo dei tre dischi che il giovane prodigio della West Coast pubblicherà quest'anno, dopo la collaborazione con i White Fence e il prossimo disco solista. Un degno emulatore di Robert Pollard, insomma, quanto a prolificità: anche se Segall non è un vecchio lupo che ormai si può permettere di tutto.
La band qui chiamata a raccolta è quella che lo segue da qualche tempo in tour e di cui fa parte Mikal Cronin, sicuramente un compositore più classico, perlomeno nelle basi, e che quindi ha dimostrato qualcosa in più, dal punto di vista della creazione di canzoni. "Slaughterhouse", come ormai tutti sanno, si pone come la divagazione hard del genietto californiano, ma forse non è poi tanto distante dall'espressione live della band, decisamente più primitiva e rumorosa che in studio.
"Hard"-blues in alcuni casi ("Wave Goodbye"); in altri appaiono i riffoni assillanti dei primi Black Angels ("Death"), con tanto di armonizzazioni spettrali (come nell'anfetaminica "Tell Me What's Inside Your Heart").
Per il resto, schegge di punk che si affaccia al suo alter-ego "post" (la title track, "Oh Mary") e brani più propriamente garage ("Diddy Wah Diddy"). Insomma l'ennesimo disco che non guarda più in là del suo naso per Segall (e la sua band). L'istintività - per quanto forzata - è la sola cosa che nobilita "Slaughterhouse"; ma la sensazione è ancora quella di assistere a una festa in cui è solo Ty a divertirsi, perso nel proprio mondo.
03/07/2012