Black Angels

Black Angels

Gli eredi al trono psichedelico di Austin

Formatasi nel 2004 in quel di Austin, Texas, la band di Alex Maas e Christian Bland è stata destinata sin dai suoi inizi a raccogliere lo scettro psych di Re Roky Erickson, non soltanto grazie alla propria musica ma anche grazie al ruolo di anfitriona della scena psichedelica locale

di Michele Corrado

A Roky Erickson e ai suoi 13th Floor Elevators è bastato un disco, il capolavoro “The Psychedelic Sounds Of 13th Floor Elevators”, e poco più per associare indelebilmente e sempiternamente il nome della propria città, Austin (Texas), al rock psichedelico. Certo, sia Erickson da solista che i 13th Floor Elevators posteriori alla sua fuoriuscita hanno registrato altro materiale valido, in taluni casi leggendario, ma è con quel disco e con il successivo “Easter Everywhere” che piantarono il seme di tanta distorta e traviata, ma ammiccante musica a venire, di quella che ti attrae tra i colori sgargianti delle sue spire lisergiche e ti inghiotte; in pratica, una gemella perversa e autistica delle più solari psichedelie di Los Angeles e San Francisco.
A partire dai 13th Floor Elevators fino ai nostri giorni, Austin e i suoi desertici dintorni sono stati terreno fertile per decine, o addirittura centinaia, di band psichedeliche che si muovono nel solco della torrida e ipnotica musica chitarristica dei suoi iniziatori. Tra le tante band della scena vale la pena ricordare: Shiva’s Headband, Cold Sun, The Golden Dawn, Cotton Mother, The Ugly Beats.
Tutte le band citate, e la stragrande maggioranza delle altre, sono rimaste però appannaggio di impallinati della musica psichedelica o di un pubblico perlopiù locale e settoriale. Prima che le luci della ribalta si accendessero nuovamente su Austin e la sua scena psichedelica sarebbero passati molti, moltissimi anni, e sarebbe stato proprio grazie a 5 fan terminali di Erickson e delle sue acrobazie psichedeliche: Christian Bland (a chitarra, voce, basso e percussioni), Alex Maas (a voce, basso, sitar, organi e tastiere), Stephanie Bailey (a batteria e percussioni), Jennifer Raines (che avrebbe lasciato la formazione nel 2008, a organo e droni) e Nate Ryan (che sarebbe stato presto sostituito da Kyle Hunt a basso e chitarra), ossia The Black Angels.

Formatasi nel 2004, nel giro di una quindicina d’anni e di 5 dischi, la band è diventata un’istituzione globale del rock psichedelico. I Black Angels non si sono però limitati ad aggiornare il suono di Austin all’età moderna, arricchendolo dunque delle possibilità offerte da decenni di esperienze neo-psichedeliche e grazie alla conoscenza antologica che hanno della psichedelia americana tutta, ma, con il passare degli anni e il consolidarsi della loro fama, si sono trasformati in veri e propri anfitrioni e nobili legatari dello psych-rock locale.
Bland e Maas, ossia il nucleo creativo della band, sono infatti tra i membri più attivi dell’associazione di musicisti The Reverberation Appreciation Society, l’ente-etichetta che dal 2013 organizza l’Austin Psych Fest. In seguito ribattezzato Levitation ed esportato in Francia, Canada e a Chicago, il festival è una kermesse annuale di musica psichedelica tra le più importanti al mondo, celebre per unire sui propri palchi nomi odierni e classici della psichedelia; dagli Animal Collective a Brian Wilson, dagli Spiritualized agli Zombies, dai Tame Impala ai Silver Apples e così via.
Il matrimonio più suggestivo celebrato all’Austin Psych Fest è però proprio quello tra i Black Angels e Roky Erickson, quando gli angeli neri fecero da backing band al proprio paladino in quello che potremmo suggestivamente chiamare un passaggio di scettro. In un’intervista a chi vi scrive (edita nel 2017 sul defunto indie-rock.it) Alex Maas ha descritto l’esperienza così: “E' stato come guidare un cavallo senza sella e staffe inseguiti da pipistrelli vampiro nel buio pesto”.

Osservando la loro attività para-musicale, è facile legare indissolubilmente i Black Angels al patrimonio psichedelico della propria città. Il discorso si fa però più intricato ascoltando con attenzione la loro musica. Nel giro di 5 Lp e svariati Ep, in proprio o split, la ciurma di Bland e Maas ha mostrato influenze e riferimenti che travalicano ampiamente i confini cittadini e texani, giungendo in California, a New York, nelle Midlands di Jason Pierce, nella Germania kraut e in mille altri destini. Un lungo viaggio che li ha condotti a quella che potremmo definire psichedelia tout court del loro ultimo disco, Death Song del 2017.

2004 – 2008: oscuri rituali psichedelici per il nuovo millennio

Se c’è una band alla quale i Black Angels si sono ispirati ancor più che ai concittadini 13th Floor Elevators, questa è di certo The Velvet Undergound, al cui capolavoro “Black Angel’s Deat Song” (da “The Velvet Underground And Nico” del 1967) gli Angeli Neri devono la scelta dell’orrorifico moniker. Gli omaggi alla formazione di Lou Reed e John Cale non finiscono però qui; il primo logo dei Black Angels è infatti un ritratto in bianco e nero stilizzato, nello stile della pop art anni 60, della chanteuse tedesca Nico.
Il disco nel quale il debito dei Black Angels verso i pionieri rock newyorkesi risuona con più forza è proprio il primo, Passover (Light In The Attic, 2006). Arrivato dopo due Ep entrambi del 2005 (“The Sniper At The Gates Of Dawn” e “The Black Angels”), il disco, che dei due extended play contiene quasi tutte le canzoni, si dipana infatti lungo 58 minuti di psichedelia scurissima, ipnotica e rituale. Salvo qualche accelerata repentina di alcuni brani, l'album avanza proprio al passo dei brani più cacofonici e ieratici dei Velvet Undergound, con la batteria scarna di Stephanie Bailey a fare spesso il verso a quella di Maureen Tucker. Alex Maas, d’altro canto, deve molto alla cantilena del Lou Reed più beat e narrativo, che interpreta molto spesso amplificandone le possibilità mesmeriche con il suo tono metallico e quasi ultraterreno.
Tra le note di copertina del disco troviamo un’ulteriore citazione che estende le ispirazioni dei Black Angels ben oltre territori musicali. Si tratta di una frase del pittore norvegese Edward Munch che recita "Illness, insanity, and death are the black angels that kept watch over my cradle and accompanied me all my life" (“malattia, follia e morte sono gli angeli neri che hanno vegliato sulla mia culla e mi hanno accompagnato per tutta la vita”). Non è difficile riscontrare nella musica della band di Austin le stesse figure deformate, l’orrorifica cupezza e l’ossessività oppressiva dell’opera del geniale artista espressionista.

Le celebrazioni nere di Passover iniziano con il primo di molti inni antibellici, una “Young Men Dead” che rimane in tutta probabilità il brano più noto della band. All’arpeggio di chitarra in piena sbornia 60’s bastano pochi secondi per catturare la mente e avvilupparla nel suo gorgo, che conduce dritto dritto in un inferno di fuzz di matrice sabbathiana, altezza “Master Of Reality”. Irradiata da un organetto ancora una volta anni Sessanta e sfigurata dai repentini attacchi del wah-wah, “The First Vietnamese War” è una girandola degli orrori che percorre tutte le guerre partecipate dagli americani, partendo ovviamente proprio da quella del Vietnam. “The Sniper At The Gates Of Heaven” avanza al passo catatonico della batteria della Bailey e gronda detriti magnetici come fossero sudore; mentre “The Prodigal Sun” disperde elettricità e fa risuonare clangori metallici agitata dalle grida di battaglia dello sciamano indiano Alex Maas.
Tocca all’altro instant classic del disco, “Black Grease”, alzare i beat e prodursi, grazie al suo giro di chitarra elettrico e conturbante, in un esaltante numero garage da ballare in preda alle convulsioni; a venire in mente è qui lo psych-garage dei coevi Black Rebel Motorcycle Club, grande sponsor del quale gli angeli hanno beneficiato a inizio carriera. Nelle strofe di “Manipulation” a risaltare sono invece gli strati sonori discordanti e misteriosi che la band è capace di affastellare attingendo anche dai raga indiani, per poi arrivare a un ritornello sgolato ed evocativo tra i più catchy della discografia.
“Empire” continua a offrire vibrazioni da cerimoniale ascetico orientale, con il sacerdote Maas intento a offrire ai fedeli uno dei testi e delle interpretazioni più simbolistiche ed enigmatiche dell’opera; in “Better Off Alone” fa infine breccia un po’ di luce e le chitarre e l’organetto ronzano nuovamente a ritmo garage.
Ci si avvia poi alla conclusione del disco con “Bloodhounds On My Trail”, una scatenata e ammiccante concessione a ruvide rimembranze blues. Tre minuti e trenta secondi di silenzio dopo i deliqui psichedelici per chitarra e tastiere della lunga “Call To Arms” troviamo, a mo’ di ghost track, una cover di “Vietnam” di Jimmy Cliff, il cui testo è stato però adattato da Maas e Bland al contemporaneo conflitto in Iraq.
Alla fine dei 58 minuti di Passover non sembra di aver ascoltato un disco d’esordio. Nonostante siano alla prima prova, i cinque musicisti texani sono pienamente consapevoli della materia che manipolano. Assorbono centinaia di istanze, ma le combinano in una mistura oscura e mesmerica che, specie a chi bazzica territori psych, suona contemporaneamente inedita e familiare. Classico istantaneo, un’espressione ricorrente di questa monografia, non sembra a questo proposito un’espressione forzata.
Molti degli episodi del disco, così come della musica che i Black Angels avrebbero prodotto in futuro, sono estremamente evocativi, perfetti dunque per accompagnare sequenze di film o serie Tv. “Young Men Dead” è stata inserita nelle colonne sonore delle serie “Fringe” e “True Detective”, mentre “Black Grease” fa la sua comparsa nel videogioco “GTA V”. Queste celebri comparse contribuirono a ingrossare il seguito della band, il cui nome, pur rimanendo un fenomeno in prevalenza sotterraneo e settoriale, iniziò a circolare con consistenza e a generare la curiosità di nuovi ascoltatori.

Ben più famosi e attesi che nel 2006, due anni dopo i Black Angels rilasciano Directions To See A Ghost (Light In The Attic, 2008), un monolite psichedelico dalla durata monstre di circa un’ora e venti minuti, che promette smarrimento sensoriale e perdizione lisergica sin dalla sua copertina a caratteri fosforescenti e spiroidali.
Directions To See A Ghost visita gli stessi territori del disco predecessore: “You On The Run” è un mantra psichedelico circolare per chitarre acuminate, “Doves” è più luminosa ma naviga nelle stesse acque lisergiche, “Deer-Ree-Shee” accende gli stessi incensi indiani che si respiravano al centro di Passover, “18 Years” è un’ondivaga divagazione neo-psichedelica à-la Spacemen3. Questo sophomore non è però una copia carbone dell’esordio degli Angeli, semmai ne rappresenta una violenta e torrida estremizzazione scura come la pece. L’aria che si respira in “Science Killer” e nella marziale “Mission District” è pesantissima come quella di un deserto crudele, rovente di giorno e mortalmente plumbeo e freddo di notte.
Si fa poi notare la presenza di tre brani che superano gli otto minuti, cosa che in “Passover” succede soltanto sul finale; lo space-rock tempestoso con tanto di solenne ed ericksoniano electric jug di “Never/Ever”, la closing track “Black Angels Exit/Shine”, ma soprattutto la tortuosa “Snake In The Grass, che si snoda in oltre sedici minuti di chitarre striscianti, distorsioni stranianti, clangori metallici e sibili sinistri.

Difficile e inutile stabilire quale disco tra Passover e Directions To See A Ghost sia più significativo, vanno piuttosto considerati due capitoli di una prima fase di carriera alla quale i texani si sono presentati già maturi e intenzionati a conquistare un ruolo di rilievo nella scena psych globale, che avrebbero ben presto dominato al fianco di nomi come Black Mountain e Brian Jonestown Massacre. I due dischi offrono infatti alle nuove generazioni il loro personale psych-rock, memore dell’esperienza anti-bellica e lisergica dei 60’s, ma pienamente consapevole degli scenari e delle possibilità contemporanee.

2009 – 2013: gli anfitrioni della tradizione psychedelica di Austin

Tra addetti ai lavori e fan irriducibili del rock psichedelico, il successo dei primi due dischi dei Black Angels fu tale non soltanto da generare un immediato, piccolo culto spontaneo attorno alla band, ma anche da rinnovare l’attenzione intorno alla scena cittadina. E’ infatti del 2008 la prima edizione dell’Austin Psych Fest, che, lunga soltanto un giorno, vide proprio The Black Angels torreggiare come main act di un cartellone contenente band più o meno locali e futuri firmatari della Reverberation Appreciation Society (Spindrift, The Strange Boys, Ringo Deathstarr, Astronat Suit etc. etc.). Il successo della manifestazione fu tale che l’anno successivo la durata venne estesa a tre giorni. Nel 2009 il festival crebbe considerevolmente sia in termini di pubblico che di line-up, la quale iniziò a mostrare i connotati del grande festival e la sua caratteristica principale, ossia la concomitanza di interessanti act contemporanei e mostri sacri. Ai Black Angels (leit-motiv e main act di ogni edizione) e agli Indian Jewelry si aggiunsero infatti nomi del calibro di A Place To Bury Strangers e The Golden Dawn – vero e proprio grande classico della vecchia scena psichedelica di Austin. Da quel momento in poi, grazie alla lungimirante opera da anfitrioni di Maas e Bland, ogni anno per tre giorni Austin sarebbe stata il contenitore del passato, del presente e del futuro della psichedelia.
Come accennato, nel 2011 (anno anche del magico matrimonio tra Black Angels e Roky Erickson) la kermesse cambiò location e mutò il nome in Levitation. Un festival ormai gigantesco, via di mezzo tra i moderni raduni stile Primavera e quelli anni 60, che si è fermato soltanto nel 2020 a causa del Coronavirus, dopo un’edizione mostruosa che ha messo insieme Black Angels, Flaming Lips e Mercury Rev.

Durante la loro tradizionale esibizione al festival, durante l’edizione del 2010 i Black Angels suonarono in full il loro terzo album, Phosphene Dream (Blue Horizon Ventures, 2010). Non un disco da dimenticare o privo di spunti d’interesse, questa terza uscita è in tutta probabilità la meno riuscita della formazione. Forse proprio a causa della sua natura, volutamente più easy listening dei due predecessori, invece di accalappiare più attenzione, il disco finisce con lo sfigurare al cospetto dei più minacciosi e imponenti fratelli maggiori. Le prime differenze con i dischi precedenti a farsi notare sono certamente l’insolita durata di soltanto 36 minuti e la completa assenza di lunghe suite psichedeliche.
Le novità in termini di composizione e di mood non sono invece immediate, data la partenza del disco sulla falsariga dei vecchi lavori; prima con l’infuocata opener “Bad Vibration” e il suo finale di chitarre che scrosciano come un fiume di magma in piena eruzione, poi con un garage frizzantino e gracchiante intitolato “Haunting At 1300 McKinley”.
Tocca quindi a “Yellow Elevator #2” introdurre, dopo aver aperto una slabbratura spazio temporale degna (ancora una volta) dei 13th Floor Elevators, la più rilevante ispirazione di “Phosphene Dream”: i Beatles. Il quartetto di Liverpool viene citato a ripetizione: la succitata “Yellow Elevator #2” è imbevuta nell’acido di “Tomorrow Never Knows”, i due minuti scarsi di “Telephone” sono una sgargiante parata di colori peppersiani, mentre“Sunday Afternoon” rielabora le dinamiche tra le parti vocali e le armonizzazioni Merseybeat dei Fab Four.
Tra chitarre che mimano le furiose e turbinanti pale di un elicottero e un testo strillato, poi sibilato e biascicato, sempre psicotico e imbevuto di paura e tensione, “River Of Blood” riporta il disco nei più classici territori antibellici dei texani. Più avanti nella scaletta, aromatizzata da arpeggi di chitarra vagamente Buffalo Springfield, la title track cerca di allontanarsi dal campo di battaglia, ma il ricordo imperversa terrificante tra i suoi nodi come succede alle vite dei veterani di “The Deer Hunter” di Cimino.
Diviso tra comfort zone e nuovi esperimenti, Phospehene Dream non conquista e rapisce come i suoi due predecessori, ma presenta vette interessanti e non va pertanto liquidato come un evitabile episodio minore.

Come evidenziato a suo tempo dalla nostra recensione, il successivo Indigo Meadow (Light In The Attic, 2013) rappresenta una sorta di sintesi tra i due dischi che lo hanno preceduto. Le durate dei brani e le strutture più legate alla forma canzone sono quelle di Phosphene Dream, ma la durezza, la cupezza e l’abrasività sono quelle del sound di Directions To See A Ghost. Con un lieve sbilanciamento verso la sua componente garage, accentuata anche dal nuovo modo di cantare di Maas, che si libera sempre più spesso delle vesti da sacerdote psichedelico per sfoderare strofe e ritornelli più spigliati.
Succede nelle sferzanti “Indigo Meadow” e “Evil Thing”, che aprono il disco con le loro zaffate di energia elettrica, ma ancor più in “Don’t Play With Guns”, una frecciata psych affondata in una bagno di fuzz incandescenti, ma poi alleggerita da un ritornello formidabile e mesmerico. Le tre canzoni inaugurano un disco dal sound granitico e immediato, che grazie alla maggior concisione dei brani, che non sforano mai i quattro minuti e mezzo di durata, continua con successo il lavoro di ampliamento del pubblico iniziato dal lavoro precedente.

Rimasti in quattro (Mass, Bland, Bailey e Hunt), i Black Angels di Indigo Meadow sono degli strumentisti chirurgici e rodati. Un rullo compressore che avanza per una tracklist di 45 minuti tondi senza dare segni di cedimento, efficace nei brani secchi e duri (“Broken Soldier”, la distortissima “Twisted Light”) ma anche in quelli più dilatati (“Holland”, “Black Isn’t Black”) e in quelli più 60’s e sbarazzini (“The Day”, “Love Me Forever”).

2014 – 2017: la chiusura di un cerchio

Un anno dopo è per i Black Angels la volta di un Ep, il primo a vivere davvero di luce propria, a non fare quindi da semplice corredo ai vari Lp o a raccogliere una performance live, Clear Lake Forest (Light In The Attic, 2014). La direzione dei sette brani ivi contenuta è chiaramente quella di Indigo Meadow, le cui atmosfere appaiono però rilassate e maggiormente filtrate attraverso la lente caleidoscopica degli anni 60 (“The Executioner”, “Tired Eyes”).
Sono qui particolarmente interessanti le montagne russe percorse dagli organetti della rocambolesca “The Flop”, ma ancor più i sei minuti di “Linda’s Gone”, che per narrazione, straniante ripetizione delle frasi e rumorismo di fondo suona davvero come un brano apocrifo dei Velvet Underground.

Nel 2017 i Black Angels da Austin non hanno più bisogno di presentazioni. I quattro dischi, il lavoro con la Reverberation Appreciation Society e, soprattutto, il Levitation ne avevano ormai fatto se non delle star delle vere e proprie istituzioni del mondo psych.
Così i cerchi concentrici, a loro volta compositi di altri cerchi blu e rossi, che ingarbugliano l’intricata e vorticosa copertina di Death Song sembrano indicarci che gli Angeli intendano chiudere una fase, congiungere le estremità di un cerchio. Il titolo fa altrettanto, componendo insieme al moniker della formazione la citazione più sfacciata mai rivolta dalla band ai Velvet Undergound ("Black Angels Death Song").
Sin dall’iniziale “Currency”, Death Song è una parata di riff hard rock vertiginosi e circolari, burrascosi vortici in cui annegare la mente. La sezione ritmica cangiante ingarbuglia le geometrie delle canzoni facendone degli irrisolvibili labirinti di ispirazione prog.
Anche la velocità e l’andamento dei brani sono piuttosto mutevoli, si va da marzialità stoner (la succitata “Currency”, “Comanche Moon”) a liquidissime ballate al ralenti. Di questa ultima categoria fanno parte le canzoni più toccanti del disco, “Half Believing” (probabilmente la miglior prova canora di sempre di Maas) e la funerea “Estimate”.
La voce di capitan Alex Maas, sempre stagliata un gradino sopra al marasma musicale, è quella di uno sciamano che si presenta, portatore di cattivissimi presagi, ai suoi devoti in trance ipnotica. Death Song non è solo una citazione. I messaggi dei Black Angels non sono mai stati così perentori e consapevoli, simbolistici e plumbei, pregni di morte e vuoti di speranza. E' colpa o merito, a seconda dei punti di vista, del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Mescolando esoterismo, politica e teatro, Maas ora condanna il capitalismo americano - “Currency”, “Grab As Much (As You Can)” - ora recita la parte di un nativo d’America ("Comanche Moon") e così via.
Al contrario dei dischi precedenti dei Black Angels, che sembravano sempre spingere verso una direzione piuttosto che un’altra, Death Song è una spugna che assorbe oltre dieci anni di esplorazioni ed esperimenti per poi rigettare dai suoi pori un liquido ipnotico e cangiante nuovo di zecca. La maturità con la quale la formazione di Austin mette in scena il suo ultimo (ad oggi) spettacolo psichedelico è tale da permettere a canzoni così strutturate, dure e varie di suonare anche dannatamente accessibili, per certi versi radiofoniche. Grandezza ulteriore risiede nel fatto che la riuscita della missione non ha richiesto ammorbidimenti o compromessi.

Side project e lavori solisti

Anche grazie al lavoro di produzione fatto con l’etichetta del Levitation festival Reverberation Appreciation Society, i Black Angels contano una miriade di collaborazioni, split Ep e apparizioni come guest star in dischi altrui. Districare una matassa così fitta e multiforme in maniera esaustiva e completa sarebbe pertanto un lavoro arduo, quando non impossibile.
Quella che segue è dunque una breve rassegna dei dischi collaterali dei Black Angels che meritano assolutamente un ascolto.

Il Black Angel più attivo al di fuori della formazione è senz’altro il chitarrista Christian Bland, che sin dal 2010 rilascia Ep e Lp con la sua seconda band Christian Bland & The Revelators. Il lavoro di Bland con i suoi rivelatori (Chris Catalena all’organo, Colin Ryan e Bob Mustachio a batteria e percussioni e Luke Dawson al basso) si pone, sin dalla grafica delle copertine dei suoi Lp, sulla scia della band madre, proponendo un suono però molto più asciutto, ruvido, desertico. La chitarra di Bland intenta nei suoi arcinoti riff ipnotici, priva del supporto muscoloso dei Black Angels, appare scarnificata a beneficio di un suono decisamente calato in atmosfere 60’s.
Dei tre dischi usciti a nome Christian Bland & The Revelators è assolutamente da recuperare il secondo, Pig Boat Blues (Reverberation Appreciation Society, 2012), nel quale grazie a canzoni fumose come l’ipnotica “Black Crayon” – nella quale Catalena dà gran sfoggio delle sue abilità all’organo - il western-rock “13 Cent Killer” e la più luminosa “Blue Glue”, scopriamo un lavoro sicuramente debitore del progetto principale del chitarrista, ma certamente affascinante, specie se si adora la psichedelia disordinata del Texas anni 60.

Sono inferiori in numero, ma ben più interessanti le sortite solitarie o in compagnia di Alex Maas.
È del 2018 l’unica uscita di un interessantissimo progetto neo-psichedelico denominato MIEN, nato dall’incontro tra Alex Maas e Tom Furse degli inglesi Horrors. Di primo acchito, accostare due band così lontane geograficamente e stilisticamente come i Black Angels e gli Horrors potrebbe sembrare un azzardo bello e buono. Difatti l’unico comune denominatore dei due progetti, declinato però in maniere assolutamente agli antipodi, è la psichedelia – intesa dai primi più classicamente, continuando di fatto la tradizione decennale della loro natìa Austin, e dai secondi più evolutivamente, facendole lambire altri luoghi musicali, dal kraut al synth-pop, passando per industrial e shoegaze.
Tanto è bastato però a Tom Furse, che degli Horrors è tastierista, e ad Alex Mass, che dei Black Angels è l’iconica voce, a decidere di unire le forze – congiuntamente a quelle di Rishi Dhir degli Elephant Stone e John Mark Lapham degli Earlies - e mettere in piedi questa specie di anti-supergruppo denominato misteriosamente MIEN. Dietro il progetto, infatti, non ci sono grandi pretese e aspettative, men che meno ambizioni commerciali di sorta, ma solo la sincera passione dei suoi membri per tutto quanto è psych. Peraltro, prima che i quattro si decidessero a dare un frutto alle chiacchierate dietro le quinte dei millemila festival di cui hanno condiviso le line-up ci sono voluti una decina d’anni.
Con tali premesse, questo esordio omonimo non poteva che rivelarsi un disco di psichedelia totale quanto variegata. L’introduzione, affidata a “Earth Moon”, ha il sapore speziato di un raga e irretisce con fitti grovigli di sitar e flauti; siamo negli anni 60 più affascinati dalle filosofie ascetiche orientali, ma diversioni e vertiginose inversioni a U sono dietro l’angolo. “You Dreamt” è un mantra di percussioni a sonagli non lontano dalle concitate celebrazioni world dei Goat, “Hocus Pocus” ingoia invece ogni forma di ritmo e spedisce il disco nello spazio, con Furse che imposta i suoi pannelli di controllo sintetici su coordinate Tangerine Dream.
Rotta mantenuta nella seconda parte della conclusiva “Earth Moon – Reprise”, dove l’astronave MIEN viene propulsa da una batteria ovattata suonata in totale assenza di gravità. Il pezzo più disorientante è però “Odessey”, che alterna versi violenti sostenuti da tastiere incazzose a strambissimi coretti pop, intonati da fanciulle un po’ odalische e un po’ pin-up.
Conoscendo bene Maas e le sue preoccupazioni per la rovina cui i capitalismi stanno conducendo la nostra Terra, non sorprende la presenza di una satira violenta come “(I’m Tired Of) Western Shouting”, il cui titolo viene ripetuto ossessivamente su uno sfondo di chitarre apocalittiche.
Molto probabilmente MIEN, in termini di diffusione, rappresenterà poco più che un oggetto di culto per irriducibili dei festival psichedelici. Ed è un peccato, perché si tratta di un formidabile compendio del genere, suonato splendidamente e capace di ottemperare alla sua – inevitabilmente - scarsa originalità grazie alla passione di ciascuno dei suoi membri per la materia in oggetto. Passione che trasuda da ogni tocco di tastiera, da ogni parola proferita con fare ieratico, da ogni accordo lisergico di chitarra e dalla riverenza sacrale con cui ogni viene sfiorata ogni corda di sitar.

Per vedere invece Maas alle prese con un vero e proprio disco solista abbiamo invece dovuto aspettare addirittura il 2020, più precisamente dicembre.
Quando un membro di una band si appresta a fare il suo esordio solista, il rischio più grande è sempre quello di non riuscire a smarcarsi dal suono e dalle idee della band madre, finendo col risultarne una versione accessoria, talvolta, invero sovente, superflua.
Con Luca il bassista, tastierista, cantante e prima penna dei Black Angels vince la sfida due volte, riuscendo a risultare sia riconoscibile (l’intonazione da estasi metallica e gli arpeggi di tastiera in loop dell’opener “Slip Into” non lasciano alcun dubbio su chi sia e da dove venga Alex Maas) sia qualcos'altro – risultato ottenuto rinunciando completamente ai riff massicci e ai fuzz degli Angeli Neri. La psichedelia fa comunque da padrone, ma non è un’esplosione di colori ed energia elettrica, bensì una bolla nostalgica di folk e pop sospesi tra polvere e anni 60 – o un pelo prima (“All Day”).
Luca prende il nome dal figliolo che Maas ha avuto nel 2018, al quale è dedicata peraltro la dolcissima “Special”, una ballatina scarna e ricolma d’amore, addobbata della sola chitarra acustica e immersa in un batuffolo di fiati. L’arrivo del figlio è stato certamente la spinta di cui Maas necessitava per lasciarsi andare in quest’avventura solista; gran parte del materiale che compone il disco risale però addirittura a una decina d’anni fa. Bozzetti lasciati impolverare per poi trovare forma in studio grazie all’aiuto di numerosi collaboratori, tra i quali spiccano i compagni di band Christian Bland e Jake Garcia, il tastierista di Jack White Quincy McRary e il batterista degli Eels Derek Brown.
Canzoni intinte in una malinconia oscura come “The Light That Will End Us” o “Shines Like The Sun (Madeline’s Melody)” provengono da vecchi juke-box in bettole di frontiera o da radioline scassate dimenticate sul muretto di un villaggio verso il Messico; mentre “Been Struggling” aggiunge a uggia e polvere l’immediatezza di un ritornello canticchiabile e appiccicoso. Solo “American Conquest”, con la sua chitarra marcatamente western, guarda più da vicino ai mantra anti-capitalisti di Death Song.
“The City” chiude col suo dolce e sconsolato humming una rassegna di dieci brani che, in quest’epoca di durate sfiancanti incoraggiate dal formato digitale, ha l’ulteriore pregio di una lunghezza snella, circa 36 minuti nei quali Maas non concede spazio a cadute o dettagli superflui.

Certamente l’attesa di un nuovo disco dei Black Angels rimarrà il pensiero fisso di tutti i fan della ciurma psichedelica texana, ma Luca è un diversivo di fattura pregiata che concede l’occasione di conoscere più a fondo il capitano della combriccola.


Con Death Song del 2017 i Black Angels hanno pubblicato un disco che è a tutti gli effetti la summa della loro opera fino a quel momento, il punto di arrivo di un percorso che ne sintetizza tutti gli esperimenti e le deviazioni. Una formula psych-garage che viene facile definire totale.
Nonostante cinque anni di iato nei quali negli Stati Uniti e nel mondo è successo di tutto, la band capitanata da Alex Maas e Christian Bland, solitamente più prona a mutazioni e più reattiva alle contingenze, ha scelto di ricominciare il proprio cammino proprio da dove lo aveva interrotto. Wilderness Of Mirrors (2022) mutua dunque il sound e le soluzioni dal suo predecessore, ampliandone però il raggio d’azione, anche grazie a una durata monstre, e talvolta un po’ pesante”, di quasi un’ora.
Nel suo sesto disco, il quintetto di Austin si trova quindi ad affrontare nuove tematiche, talvolta anche con un inedito approccio positivo (la ribelle “Without A Trace” e una “El Jardin” che ci invita a lasciare un mondo migliore ai nostri figli), e una suddivisione ideale in tre parti, la prima arrembante e votata al garage psichedelica, una centrale più folk e una finale più ariosamente psichedelica.
Dopo un capolavoro di opener come “Without A Trace”, dove l’interra formazione dà sfoggio delle sue note qualità, le varie “Hystory Of The Future”, “Empires Falling” e “La Pared (Govt. Wall Blues)” si producono dunque in un bruciante assalto di fuzz e ficcanti incursioni chitarristiche.
Il folk psichedelico di “The River” ingloba nella formula della band sentori anatolici, mentre la pittoresca “100 Flowers Of Paracusia” ha addirittura un approccio testuale paesaggistico e “Here And Now” rallenta ulteriormente i giri a favore di uno strumming di chitarra acustica energico che però, in combinazione con il dolce canto di Maas, diventa altamente evocativo. La roboante title track sguscia invece rapida come un serpente a sonagli che sfreccia tra le dune di un deserto.
Ci si avvia verso il finale del disco con una “Icon” che fa il verso alla psichedelia marziale dell’indimenticato Passover con qualche spezia orientale nelle gorgheggianti linee vocali, per poi concludere il viaggio con la spaziale “Suffocation” che protende le sue chitarre verso una volta celeste oscura e carica di mistero.
Non c’è che dire: nulla di nuovo sul fronte di Austin. Fa però immenso piacere ritrovare dopo un bel pezzo una band e vederla riconfermarsi leader del settore sfornando una prova solida dopo l’altra.

Black Angels

Discografia

BLACK ANGELS
The Black Angels (Ep, Light In The Attic, 2005)

Passover (Light In The Attic, 2007)

Directions To See A Ghost (Light In The Attic, 2008)

Black Angels Exit (Ep, Light In The Attic, 2008)
Phosphene Dream (Blue Horizon Ventures, 2010)
Phosgene Nightmare (Ep, Blue Horizon, 2011)
Another Nice Pair (Light In The Attic, 2011)
Indigo Meadow (Blue Horizon, 2013)
Clear Lake Forest (Ep, Blue Horizon, 2014)
Death Song(Partisan, 2017)
Wilderness Of Mirrors (Partisan, 2022)
ALEX MAAS
Luca (Basin Rock, 2020)
CHRISTIAN BLAND & THE REVELATORS
The Lost Album (RAS, 2010)
Pig Boat Blues (RAS, 2012)
The Unseen Green Obscene (RAS, 2014)
MIEN (ALEX MASS/TOM FURSE)
MIEN (Rocket Recordings, 2018)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Black Grease
(da "Passover", 2006)

Bloodhounds On My Trail
(da "Passover", 2006)

Telephone
(da "Phosphene Dream", 2010)

Bad Vibrations
(live, da "Phosphene Dream", 2010)

Black Angels su OndaRock

Black Angels sul web

Sito ufficiale
Facebook
Testi