Figuriamoci se Ty Segall avrebbe mai potuto restare indifferente alla sfida lanciata dai King Gizzard: cinque album realizzati nello spazio di un solo anno. Il genietto californiano, non nuovo a slanci iper-produttivi, rende pan per focaccia a distanza di pochi mesi: ben sei, fra dischi completati in proprio (spicca "Freedom’s Goblin“, uno dei suoi migliori di sempre) o frutto di collaborazioni (da segnalare almeno “Joy”, condiviso con White Fence), fra i quali “Fudge Sandwich” assume il ruolo del disco di cover.
Segall è un musicista di grande talento, che in altre epoche avrebbe potuto avere la stessa considerazione di un Prince, invece si ritrova a trattare la materia (garage-) rock quando questa sviluppa ormai numeri troppo piccoli, non smuove le masse, relegata in una nicchia all’interno della quale Ty - pur restando patrimonio di pochi adepti - ricopre comunque un ruolo di primissimo piano.
Ty condivide con Prince lo stesso problema: immettere sul mercato così tante pubblicazioni da non riuscire a garantire un livello qualitativo sempre eccelso. In “Fudge Sandwich” dimostra di saper marchiare a fuoco brani altrui attraverso il suo riconoscibile stile, lanciandosi in sfrenati assoli di chitarra che rendono personale persino un evergreen come “I’m A Man” dello Spencer Davis Group di Stevie Winwood, accelerando all’impazzata il mito dei Grateful Dead in “St. Stephen” e nobilitando il kraut-prog degli Amon Duul II di “Archangel Thunderbird”.
I momenti più godibili arrivano in corrispondenza dei brani più tirati, versioni che sarebbero potute tranquillamente uscire dalla sua penna: l’indiavolata “Hit It And Quit It” dei Funkadelic, resa a colpi di fuzz, la sguaiatissima “The Loner” di Neil Young, accelerata a più non posso, un’indiavolata “Rotten To The Core” che trasforma gli anarco-punk inglesi Rudimentary Peni – band senz’altro da recuperare - in contundenti idoli stoner.
Ma come non ammirare la capacità di assomigliare a John Lennon nella “Isolation” che fu proprio dell’ex-Beatles, con la genialata di mettere la chitarra al posto del pianoforte dell’originale? Ty Segall non ha paura di confrontarsi con i mostri sacri del passato: ciò che realizza non è la sbruffonata dell’esordiente a caccia del colpo a effetto per cercare visibilità, bensì l’omaggio messo a fuoco da un artista ormai considerabile sul medesimo livello.
Un filino di noia affiora in corrispondenza dei brani meno sfrenati (“Class War” dei Dils) o affrontati con piglio acustico (“Pretty Miss Titty” dei Gong, “Slowboat” degli Sparks) oppure quando rielabora in maniera non brillantissima la “Lowrider” dei War, posta - chissà poi per quale motivo? - a inizio tracklist. Ma Ty gioca e si diverte un mondo, e fa divertire l’ascoltatore, selezionando undici cover che hanno anche il pregio di farci recuperare gli splendidi originali, molti dei quali giacevano colpevolmente da anni in fondo alla memoria. L'infinita gioia di sentir suonare un grande musicista con rispettosa irriverenza.
29/10/2018