Ty Segall

Freedom's Goblin

2018 (Drag City) | garage-rock

Late at night when I’m all alone
No distractions, nobody’s home
I’m not the person you think I might be
I’m someone different, I’m free

L’idea è che non esiste un’idea inappropriata, né un ambito musicale che sia a priori sbagliato. Questa, a voler semplificare, la linea programmatica alla base del decimo, monumentale album firmato Ty Segall, di fatto un approfondimento del discorso avviato col precedente lavoro eponimo giusto dodici mesi fa. In quel caso c’era l’irrequieta rivendicazione di “Freedom”, mentre a questo giro i richiami alla libertà a tutto campo sono innumerevoli. Non solo proclami comunque, a coronamento di un anno davvero intenso che ha visto Ty convolare a nozze con Denée Petracek dei Vial e pubblicare anche un paio di Ep, il mini “Fried Shallots” e, su Suicide Squeeze, il sette pollici “Sentimental Goblin”. Al suo fianco è allora più che confermata la “Freedom Band”, con la fidata sezione ritmica composta da Charles Moothart e Mikal Cronin, le tastiere di Ben Boye e la chitarra “sfidante” dell’altro Cairo Gang, Emmett Kelly, cui si aggiungono i latrati della consorte in “Meaning” e le percussioni del vicino di casa Fred Armisen. Autentica variabile impazzita di “Freedom’s Goblin” sono tuttavia i fiati, che aprono improvvise brecce soul ma non disdegnano occasionali puntate in territori jazz irranciditi e quasi no-wave (il sax di Cronin in “Talkin 3”, che richiama James Chance And The Contortions).

La dedica alla bassotta Fanny che apre le danze accentua proprio questa propensione a un protagonismo meno cervellotico o egocentrico e più da gran maestro di cerimonie: la consueta elefantiasi seventies del Nostro, sciorinata però con un più genuino entusiasmo e al netto della spocchia che fu, di quando in quando. Caleidoscopico e incasinato, gioiosamente derivativo, intensamente classic-rock, il disco si ammanta della purezza che al pur celebrato “Manipulator” era mancata e ha il merito di imbrigliare l’enfasi luculliana e la fame onnivora del californiano in maniera salutare, mantenendo costante una tensione che ribolle, magari sotterranea, e che permette alle canzoni di pulsare con sufficiente vitalità anche laddove parrebbero prevalere i soliti, eccentrici, esercizi di stile: a tratti sbrindellate, più spesso infettate da un bizzarro gusto per la contaminazione, queste si confermano sempre sfuggenti e sopra le righe, emanazione di un’inventiva esercitata finalmente a briglia sciolta. Prova ne è la festosa alienazione messa in scena – tra la sghemba isteria degli ottoni e quel coro gospel pure all’aceto – da “The Main Pretender”, di fatto rovesciando la tronfia (e autoreferenziale) retorica di quell’unico, illustre, predecessore in formato doppio.

Registrato in cinque diversi studi tra cui quello ricavato nel proprio garage a Los Angeles, ancora sotto la supervisione di Steve Albini, da più parti “Freedom’s Goblin” è stato salutato come il “White Album” di Segall, e in effetti le reminescenze beatlesiane anche stavolta non mancano (si pensi solo a titoli come “Cry Cry Cry”, evidentemente un fragile omaggio a George Harrison). Nel loro scorrere invadente e disordinato, questi debiti rivelano ora un che di trionfalmente irregolare, uno spleen incontenibile e incline all’aberrazione che ci si aspetterebbe piuttosto dall’amico e mentore John Dwyer (“When Mummy Kills You”).
I Fab Four si riaffacciano poi col dolente intimismo di “Rain”, che a dirla tutta sembra voler teatralizzare l’introversione del vecchio “Sleeper” attraverso un impianto assai più robusto, giocando con buona personalità sul registro melò, quasi ci trovassimo al cospetto di un consumato cantautore. Nel rendere esplicita proprio questa citazione, i dodici minuti conclusivi di “And, Goodnight” si incaricano di chiudere una dolorosa parentesi lunga un lustro con una rilettura visionaria e lancinante di quella vecchia title track.

Tra frattaglie percussive e luride elettriche à-la Prince, la cover disco-funk di “Every 1’s A Winner” degli Hot Chocolate spinge l’esplorazione verso un revival insudiciato e Beck-iano anche piuttosto trottante, mai svilito in trito macchiettismo. La bolaniana “My Lady’s On Fire” marca un deciso ritorno in zona “Goodbye Bread”, pur evitando di calcare sulla perfezione easy-listening di allora e anzi improntando tutto alla divagazione, una jam ricca di felici turgori, smaliziata e amabilmente decorativa. Con una maggior propensione al prog floreale rispetto alle spacconate hard dei progetti collaterali, Ty ritrova la necessaria concretezza in numeri di assoluta bravura come “Alta”, scorrevoli e masturbatori quanto basta ma senza più tradire la pressione del talentino eternamente a caccia di conferme.
Passati i trenta, Segall sembra davvero più adulto e più libero come artista, meno vincolato dalle impressioni attese, più a suo agio nell’imperversare senza più ombra di autocompiacimento proprio nel disco che sognava di registrare da chissà quanto: meno forzature da smargiasso, caos rumoroso disciplinato a dovere, più incanti alla buona e senza pretesa d’infallibilità artistica. Apoteosi di questa inedita prospettiva, imperfetta ma che sa comunque di conquista, è la ballad-manifesto “I’m Free”, magistralmente contrappuntata da una “5 Ft. Tall” parimenti catartica e distensiva.

Dal glam alle inevitabili scorie garage-psych qua e là presenti, il biondo di Laguna Beach si tiene fuori dalle rigide costrizioni di genere sfoderando in compenso un eclettismo e una weirdness che, nei frangenti più inclini alla sperimentazione, si rivelano degni del genio bastardo dei Ween. A penalizzare un album di rara franchezza è forse solo la sua natura smisurata, non certo propensa alla sintesi, anche se nell’insieme “Freedom’s Goblin” suona comunque più coerente di quanto si sarebbe indotti a immaginare in virtù dei tanti spunti, spesso contraddittori.
A fare da collante, la disinvoltura di un interprete che appare davvero in pace con se stesso e con i propri vezzi capricciosi, la cui voce a tratti si miniaturizza in falsetti, a tratti si rigonfia come per dare ulteriore fiato a scorribande che già fanno della fisicità prorompente un marchio, quando non scelga piuttosto di esacerbarsi o lacerarsi. Ad andare in scena, più che altro, è l’amore per l’eccesso espressivo, in uno scorrere tortuoso e nondimeno rasserenato che apre a una corrispondenza fenomenale tra l’uomo e l’artista. Così nella sua strizzata d’occhio alla Band, la giostra di “The Last Waltz” si presenta alticcia e dolceamara, ma anche gaia e pungente come la vita stessa, e Ty ritrova in un sol colpo l’urgenza e lo spirito incontaminato dei suoi primi passi.

(16/02/2018)

  • Tracklist
  1. Fanny Dog  
  2. Rain  
  3. Every 1’s A Winner  
  4. Despoiler Of Cadaver  
  5. When Mommy Kills You  
  6. My Lady’s On Fire  
  7. Alta  
  8. Meaning  
  9. Cry Cry Cry  
  10. Shoot You Up  
  11. You Say All The Nice Things  
  12. The Last Waltz  
  13. She  
  14. Prison  
  15. Talkin 3  
  16. The Main Pretender  
  17. I’m Free  
  18. 5 Ft. Tall
  19. And, Goodnight
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