Ci sono
englishmen in New York e
chansonniers in Paris. Sébastien Tellier, da quelle parti oltralpe, è il Pop. E non potrebbe essere altrimenti, per un
garçon che si è formato musicalmente nell’età dorata del
french touch, l’Illuminismo musicale francese, e che ha visto uno dei suoi migliori dischi prodotto da metà
Daft Punk.
Eclettico e
camouflage, il barbuto playboy lo è sempre stato: ispiratissimo cantore dell’amore più puro quando afferma solenne che "nothing's gonna change my love for you/ I wanna spend my life with you" in quella che è una delle canzoni-simbolo dei primi anni Duemila, e cioè "La Ritournelle", e un minuto dopo calato nelle vesti di bizzarro porno-santone che, con occhi spiritati e sguardo stralunato, osserva lussurioso i suoi adepti impegnati nell'orgia di Cochon Ville (francesismo che identifica un paese di maiali). Attraversando, nel mentre, una fase da capo-popolo che vuole sensibilizzare le masse sul genocidio dei nativi americani, novello Antigone al fianco di tutte le minoranze etniche, e persino spingendosi nel culto di Poseidone per assecondare il suo lato mistico nel pregevolissimo "
My God Is Blue".
Un bel dì, e qui arriviamo ai giorni nostri, il nostro si ritrova in un amen innamorato, sposato e padre. Cambiamenti così repentini e l’orizzonte di una routine sempre uguale tra le mura domestiche, si sa, possono essere devastanti per chi ha sempre vissuto tra champagne e caviale, lustrini e
paillettes. Ma il nostro eroe ci tiene a urlare al mondo che no, lui davvero ha raggiunto la felicità, e che troppa libertà può nuocere.
E per farlo non può che servirsi della musica, tradurre in canzoni la storia di un animale selvaggio, catturato e infine domato, nella sua nuova dimensione casalinga.
Se la genesi che porta a "Domesticated" merita rispetto, il
concept che ne deriva presta il fianco a troppi interrogativi. Del Tellier dei primi cinque dischi è rimasto ben poco, la sua controfigura di
pater familias ci propina, a mo' di colpo basso, questi 32 minuti che risultano difficili da metabolizzare, annacquati in una elettronica algida, marziale e dalle poche emozioni, con il fastidioso
autotune a imperversare impunito in tutti i brani. Come se le macchine avessero lavorato da sole (l’apoteosi del
robot-pop kraftwerkiano) o qualcuno a caso, magari lo stesso giardiniere della sua villa parigina, avesse schiacciato il tasto di un
sequencer e questo avesse iniziato a elaborare sequenze e note a casaccio con distorsioni vocali.
Nonostante il team di produzione, composto da un manipolo di smanettoni dj della nuova scena electro, lo abbia lasciato libero di concentrarsi sulle melodie e le linee vocali, sono proprio queste ultime a mancare. Le atmosfere rimangono quindi per lo più strumentali, frutto di sonorità futuribili che aggiornano il pop degli anni 80 robotizzandolo con gli strumenti di ultima generazione.
Il brano che più di tutti racchiude il
mood del disco è "Domestic Tasks", che si dipana ripetitiva in
loop con
minimal synth che vanno via via ad aggiungersi (immaginate gli
Hot Chip al rallentatore frullati coi
Kraftwerk), mentre l’R&B cristallizzato in
slow motion di "A Ballet", con tanto di assolo di sax a spezzare il ritmo, può contare sulle spettacolari immagini create per il video di supporto, dove un Tellier tascabile, in miniatura, si aggira onnipresente tra gli spazi domestici, soluzione peraltro già sperimentata eoni prima dai
Cars nel video di "You Might Think".
"Stuck In Summer Love" vorrebbe ripetere il successo di "Look", a partire dal pruriginoso video animato, ma senza possederne la melodia e la forza evocativa, "Venezia" è funk bianco pompato con
beat di derivazione
eighties, ultimo regalo dell’amico produttore Philippe Zdar, che morirà pochi mesi dopo (il brano è stato registrato dai due amici a Venezia, da qui il nome). "Won" sintetizza in poco più di tre minuti la dance dei
Phoenix digitalizzati e resi androidi.
Certo, la recente collaborazione con la
Von Teese, coppia perfetta modello The Persuaders che si incastrava a meraviglia sulle note di una nuova
sexuality, non faceva presagire questo repentino cambio di rotta, e chi scrive non ha ancora realizzato, dopo ripetuti ascolti, se il nuovo che avanza sia una precisa scelta stilistica bisognosa di tempo per essere digerita o, chissà, l’alba di una preoccupante impasse creativa. Vi risparmio la risposta, fin troppo banale e scontata, che ci darebbe la coppia
Battisti/
Mogol.