Si potrebbero scrivere libri interi sullo strettissimo legame che intercorre tra lo joik e la cultura sami, il modo in cui il primo trasporta in forma di canto le istanze e i caratteri della seconda, un rapporto di scambio costante che malgrado i tentativi di soppressione e la conseguente emarginazione si protrae nei secoli, arrivando negli ultimi decenni a contaminarsi con i linguaggi rock ed elettronici e lanciare vere e proprie celebrità nel genere (una su tutte, Mari Boine). È un canto solitario, a stretto contatto con la natura, da cui lasciarsi pervadere, per trasferire l'essenza di un luogo, un animale o anche una persona dentro la melodia stessa, spesso e volentieri senza l'ausilio di parole o composizioni di supporto. Ed è ad esso che Anna Näkkäläjärvi-Länsman, meglio nota come Ánnámáret, ha dedicato la sua ricerca musicale, sublimando un percorso decennale in un manifesto personale, quale “Nieguid duovdagat” (traducibile come “paesaggi onirici”). Prosciugato l'organico esecutivo a terzetto, col sostegno discreto dell'elettronica a rafforzare gli interventi di jouhikko (lira ad arco finlandese) e shakuhachi, il joik della musicista viaggia verso territori di imponderabile fascino, incrociando tradizione e modernità sami in un legame vitale, appassionato.
Comprensibilmente posta in primo piano, è la voce di Ánnámáret a guidare l'intera operazione, con una versatilità e un senso dell'espressione che già da solo tramuta l'album in un flusso senza sosta, un movimento sinuoso che si dirama in mille rivoli diversi. Non vi è un solo joik qui che ripercorra i solchi del precedente, che individui un viatico analogo ad altri: fitte nel mistero, anche quando qualche parola filtra dal canto a-verbale, le narrazioni non hanno bisogno di lasciar emergere un senso tangibile, una concretezza che forse assumerebbe le fattezze di un'illecita intromissione. Il concertato accompagnamento sonoro segue tale ambizioso dinamismo descrivendo passaggi di solitaria, commossa grazia.
Talvolta gli strumenti appena accarezzano il fervido interpretare, volteggiano attorno come comprimari discreti, tra leggiadri duelli a mezz'aria (gli scambi di dialogo in “Nuppi bealde”) e innevate carezze d'ambiente (“Buolvves bulvii”). In altre occasioni il tocco si fa più energico, jouhikko e shakuhachi quasi si ergono a simbolo della forza degli eventi, consentendo al joik della musicista di rivelare un dinamismo quasi pop, che il sommesso trattamento elettronico traduce spesso in un latente potenziale techno. Dal vibrante trattamento folktronico di “Johtit ain”, che più esplicita la tendenza sincretica dell'album, alla danza albeggiata di “Aski”, il cuore di questi scenari onirici sa pulsare anche al ritmo di affascinanti hook melodici.
In fuga da precisi connotati temporali, ma sempre ben conscia di quanto passato e presente sappiano collaborare per trasportare in una dimensione del tutto nuova, Näkkäläjärvi-Länsman dona al suo linguaggio la chiarezza di una personalità assoluta, di una prospettiva che riesce a fissare attimi di eterno in fugaci (ma potentissime) tracce vocali. Non potrebbe esserci un miglior lasciapassare di quel che la cultura sami ha saputo e sa tuttora essere.
29/10/2021