Scompaiono le algide staffilate digitali, svaniscono pure le grottesche distorsioni con cui enfatizzare i tratti di un'Inghilterra incapace di riflettere su se stessa: quanto avviene in "New England" è totalmente stemperato, un abbraccio scomodo che le voci e una strumentazione ridotta all'osso rendono ancor più fastidioso? Ambient-music? Certamente, ma più che suggerire un'atmosfera, un contesto, finisce per disperderne i connotati, annebbiare un quadro preciso a favore di un andamento vagabondo, che solo rare apparizioni melodiche sanno puntualizzare, in preda a un delirio febbrile.
Rimangono paesaggi fatti a pezzi, smembrati e mai ricomposti, protesi a interrogativi senza una risposta definitiva (il modo in cui il "What century?" conclusivo viene ripetuto con ostinazione aggressiva, industriale, sul rimaneggiamento desolato di "Folly"), o anche a uno sprezzo che ormai è diventato la caricatura di se stesso, attorcigliato attorno a memorie prive di fondamento ("Better In My Days" e il ringhio espressivo di una bestia ferita, umiliata). E quando a rimanere è una landa piena di macerie, è la preghiera l'unica via possibile, il desiderio di ritrovare la speranza perduta, invocare il cielo per una nuova "Glory", che non può non passare da un ritorno alle radici, stavolta scevro da filtri propagandistici.
Fino ad allora, tanto vale danzare attorno alle rovine di un mondo ben oltre il declino. La "Fire Leap" di "The Wicker Man" viene qui ripresa in tutto il suo potere destabilizzante, un turbine sacrificale che non esita a esasperare i suoi tratti orrorifici attraverso un uso accorto delle parti vocali e dei contributi di synth. Oppure, meglio rimettere tutto in prospettiva, e ribattere ancora sui dolori di un presente dettato da una costante instabilità, totalmente privo dei mezzi per rialzarsi (i cori filtrati di "Throne", resi nitidi nelle loro qualità ancestrali).
Ad ogni modo, che si tratti di un rifiuto della realtà circostante o di rabbia impotente, dopo che tutto è stato vomitato fuori, è solo il silenzio a poter fornire un commento finale (i sette minuti che chiudono la sinistra liturgia di "Golden Dawn").
Intelligente nel donare un nuovo vestito ai pezzi più brevi di "Pastoral", "Deep England" è la resa essenziale, ma proprio per questo portata al parossismo, di un'opera tra le più intense degli ultimi anni. Particolare menzione va al NYX, per aver saputo scovare nei frattali impazziti del disco una straziante, insopportabile afflizione.
(12/11/2021)