Con l’avvento del terzo millennio la musica rock è stata provvisoriamente messa in cantina, un linguaggio espressivo che resiste solo tra maturi nostalgici e giovani acquirenti di vinili digitalizzati che inseguono un furore oramai estinto. Non è facile comprendere le ragioni di questo sconvolgimento epocale, la sete di edonismo da una parte e la rabbia affidata agli slogan dall’altra, hanno in qualche modo ridimensionato la partecipazione sociale e politica e di conseguenza la musica ha smarrito molte accezioni culturali.
Sorprende piacevolmente scoprire le forti motivazioni dalle quali nasce il nuovo album del musicista canadese Whitney K: una denuncia sulle conseguenze del colonialismo canadese e sulle prospettive ancor più destabilizzanti della corsa verso l’urbanizzazione, quindi sulle contraddizioni di un progetto politico che mira a schiacciare le realtà sociali e culturali autoctone.
Il folk blues urbano, notturno ed ebbro di Whitney K affonda le radici nelle piccole miserie e fragilità umane, tra ballate cadenzate da un tempo di valzer e un indolente suono di una slide guitar (“Me Or The Party #165”) o stralunati gospel-blues introdotti da un flusso noise vellutato e tagliente, con un organo che accenna un lampo di ottimismo (“The Weekend”).
“Two Years” è un disco rock nel senso più puro del termine, un album aspro e graffiante alla maniera dei Velvet Undeground: un modello musicale che è riferimento costante per il musicista canadese, soprattutto quando il suono si fa più grezzo e ribelle al fine di mettere all’indice le politiche colonialistiche (“Trans-Canada Oil Boom Blues”).
Spacciato erroneamente per un esordio, “Two Years” è in verità il terzo album in studio del musicista canadese. In meno di trenta minuti Whitney K affronta i dubbi di un uomo in perenne difficoltà con le proprie radici, da anni Whitney viaggia tra Canada, America e Inghilterra. E' un insieme di storie e anime in movimento, un disco on the road che viaggia sia sulle highway che sulle railway, raccogliendo blues, country, honky tonk, gospel e un briciolo di psichedelia.
Se Mark E. Smith fosse nato in America o in Canada, forse le sue canzoni sarebbero state sbilenche e roots come “Last Night #2”, anche se sono le tribolazioni di John Cale (le distorsioni del violino nella cupa “Good Morning”), la poetica urban-folk di Lou Reed (la splendida “Maryland”) e il disincanto alt-country di Cass Mc Comb (“Hit This Pipe” e “Cowboy City Rockers”) le influenze più evidenti di un album oltremodo originale e potente.
15/03/2021