Chiunque abbia confidenza con la musica di Doug Martsch e dei Built To Spill, non avrà difficoltà a credere al chitarrista e frontman della band quando afferma che gli sarebbe piaciuto incidere per la Sub Pop dacché è adolescente, quando da Boise guardava al fermento della non così lontana Seattle. Quest’anno, dopo trent’anni di carriera e una ventina abbondante in più di vita sulla terra, il chitarrista dell’Idaho, ormai un po’ imbolsito e con i ciuffi di barba debitamente imbiancati, ha finalmente firmato per la leggendaria etichetta indie del Pacific Northwest.
E quindi “When The Wind Forgets Your Name” non è un ritorno a casa, anche se può sembrarlo a tutti gli effetti, tutt’altro, è una bella corsa. Ruspante e granulosa, ma anche calda come un abbraccio, "Gonna Loose” è l’opener perfetta di un disco gioioso, smanioso, a tratti addirittura euforico, anche nel finale di “Comes The Day”. Come quando la chitarra quasi saltella nella scalmanata “Never Alright", o quando si imbarca negli svolazzi fantasiosi e imprendibili della dolcissima “Spiderweb”, vera e propria ragnatela d’amore indie-rock infettiva e appiccicosa, in cui si rimane intrappolati.
Dall’ultima vera e propria fatica discografica della band, “Untethered Moon” (Warner Bros, 2015), sono passati ben sette anni, mentre ne sono trascorsi soltanto due dal poco apprezzato “Built To Spill Plays The Songs Of Daniel Johnston” (Ernest Jenning, 2020), tributo a tratti amaro al cantautore di Sacramento che aveva accompagnato dal vivo gli ultimi concerti.
Per Melanie Radford (basso) e Teresa Esguerra (batteria), entrambe entrate in formazione nel 2019, è dunque la prima volta alle prese con la scrittura di brani originali insieme a Doug, uno dei più apprezzati indie guitar hero degli anni 90, figlio ideale di Neil Young. Compare infatti lo spettro di “papà” – e anche dell'altro "figlioccio" J Mascis (Dinosaur Jr.) – in diversi brani, tra cui “Fool’s Gold” e “Elements”, quest’ultima però innervata dalla sinergia con la nuova sezione ritmica. Ironiche (“Rocksteady”) e riflessive (“Alright”), toste e psichedeliche per far scappare il brano fuori dai soliti tracciati (proprio in “Elements”), le due musiciste hanno portato ulteriori energie e idee preziose, anche se risulta chiaro, oggi più che mai, che i Built To Spill siano un progetto quasi solista di Martsch.
“When The Wind Forgets Your Name” è un disco che vede la band muoversi nella nota comfort zone, riproponendo di canzone in canzone gli effetti speciali migliori del suo repertorio. Chi ama i Built To Spill epici e briosi non potrà che adorare riff e allunghi chitarristici smarriti nell’iperuranio, mentre chi brama una melodia canora a presa rapida si ritroverà a ricalcare il falsetto di “Understood” in men che non si dica. Complessivamente l’album è una bella boccata di ossigeno che non fa sentire alcuna stanchezza in una formula, nonostante tutto, calcata più volte.
14/09/2022