Trentratré canzoni comodamente ripartite in tre dischi, per tre direzioni e tre identità precise: uno e trino, interpretato in tre lingue diverse, il terzo album (per l'appunto) di Yaya Kim è un assoluto monumento, il frutto d'amore verso la propria arte, coltivato e maturato senza alcun contributo esterno con straordinaria premura, prima di essere condiviso col mondo. A nove anni da un “Cruel Picture” che già testimoniava la smisurata ambizione dell'autrice coreana, “a.k.a. YAYA” rincara la dose, triplicandone gli sforzi in uno dei più imponenti affreschi musicali degli ultimi anni, un'attestazione di indipendenza e disciplina, capace di macinare jazz, retaggi classici, impeto tango e spunti pop-rock, e plasmare così un vero e proprio mappamondo sonoro. Forte di una densità che non teme di saggiare le lunghissime durate, l'opera è esperienza che ripaga l'ascolto, invita ad addentrarsi ancor più in profondo nella ricchissima espressività della musicista.
Come approcciarsi ai centoquaranta minuti del lavoro? Senza alcuna fretta, concentrandosi volta per volta su uno dei tre dischi di cui si compone l'album (la suddivisione non è casuale), lasciandosi permeare dalla specificità del mood, dalla profonda caratterizzazione emotiva fornita a ogni singolo brano. Sarà più facile contemplare poi la visione d'insieme, l'unitarietà di pensiero, impossibile da trascurare nonostante il continuo cambio di stili e attitudini. Il controllo è totale, insomma, si snoda lungo pagine musicali che prendono quasi la piega di una lunga avventura, dividendosi tra riflessioni, slanci interpersonali, considerazioni ad ampio respiro, spesso e volentieri intersecandosi tra loro. D'altronde, è anche nelle sue capacità di ibridazione che Kim riesce a essere così accattivante, nel suo saper piegare e far dialogare timbri e registri senza apparente sforzo.
Così il primo disco si lascia dominare da più nervose atmosfere rock e non resiste alla seduzione del trip-hop, ma a dare man forte concorre uno strisciante feeling jazz, un'allure decadente che trasforma le interpretazioni dell'autrice nei capitoli di una vera e propria opera rock. Non manca poi il singolare momento dai richiami tango, nelle fattezze di una “Dust” che col suo dolente incedere intercetta quella combinazione tra Argentina e umori noir(-jazz) che costituiscono invece l'anima del secondo disco.
Con l'ingresso dello spagnolo, oltre al coreano e all'inglese che già si contendevano ottimamente lo spazio lirico, la seconda sezione si fa più istintivamente torrida, non rinuncia però alla complessità esecutiva e alle finezze espressive, alza piuttosto la posta in gioco approfondendo i legami con gli aspetti più fumosi e immateriali della musica di Kim, sì teatrale nell'espressività ma mai votata all'eccesso fine a stesso. Quando arriva il terzo disco, si esplicita perfettamente la “Yaya's way”, volitiva e carismatica come da scat(tante) momento conclusivo del secondo atto. Più classico nel mood, in un gioco di specchi che accosta passi valzerati, robusti esperimenti crossover e sottili filigrane globaliste, affiora il tocco più delicato della musicista, impresso però con mano decisa, tesa a gestire alcuni dei momenti più emotivi, spontaneamente autunnali, della collezione.
Non affannatevi a cercare brani che spiccano, ipotetici singoli da mettere in risalto. Certo, trovare i propri momenti preferiti può risultare anche un esercizio interessante (“Life Is Nothing”, nella sua elegantissima rassegnazione, vince la mia palma), ma è tanta la cura posta da Kim nel gestire il particolare quanto il globale che l'attenzione fa presto a tornare al momento presente, a non evidenziare cedimenti di sorta.
Personalità a tutto tondo, voce tra le più plastiche del cantautorato contemporaneo, Yaya Kim si presenta nella sua immagine più autentica, travalica mode e contesti per condensare l'essenza più pura di uno stile totalmente proprio, capace di tenere testa anche alle lunghissime distanze. Un trionfo in piena regola.
13/12/2022