“Hooow does it feel…?”. Ecco il punto: come ci si sente? Che poi è la grande legge dell’immedesimazione. Cat Power sposta l’accento su quell’“how”, nell’arcinoto ritornello di “Like A Rolling Stone”. E suona come una dichiarazione di intenti, la sua, perché stavolta l’obiettivo dichiarato è proprio quello di mettersi nei panni di un altro, non di appropriarsene.
Quando hanno proposto a Chan Marshall di tenere un concerto alla Royal Albert Hall di Londra, lei ha posto una sola condizione: poter rifare dall’inizio alla fine il leggendario concerto di Bob Dylan del 1966 (quello del famigerato grido “Judas!”, immortalato nel doppio “Live 1966”). Un concerto che, nell’immaginario collettivo, resta collocato proprio alla Royal Albert Hall (per un errore nel titolo del bootleg originario), anche se in realtà si è svolto alla Free Trade Hall di Manchester. Nonostante le perplessità del management, alla fine l’ha avuta vinta lei, e “Cat Power Sings Dylan” è la testimonianza fedele del suo impossibile viaggio nel tempo.
Non si tratta, insomma, di un semplice disco di cover, come quelli a cui Chan Marshall ci ha abituato in passato. Si tratta piuttosto del tentativo di rivivere da dentro un pezzo di storia: “il più grande concerto rock’n’roll mai suonato”, per dirla con Greil Marcus. “L’ho semplicemente ricreato”, spiega la cantante americana, “non ho voluto farlo mio”. Così, se in “Song To Bobby” (da “Jukebox”) sognava di raccontare a Dylan tutto quello che aveva nel cuore, “from the beginning ’til my dying day”, ora è come se quel cuore volesse farlo vibrare all’unisono con le canzoni che riprendono vita sul palco della Royal Albert Hall.
Un po’ di anni fa (nel 2002, per l’esattezza) ci aveva già provato anche un altro dylaniano di ferro, Robyn Hitchcock, che nel suo “Robyn Sings” si era cimentato con lo stesso concerto: l’exleader dei Soft Boys, però, si era fermato alla sola metà elettrica, mentre Cat Power ha deciso di rivisitare tutta la scaletta. Con uno sguardo in cui a dominare è la devozione, certo, ma che non per questo si adagia in una semplice rievocazione storica.
“Mi sono detta: facciamo qualcosa di elegante, qualcosa di fedele alla forma. Niente improvvisazione, niente decostruzione. Facciamo qualcosa di autentico, elegante e semplice”. E proprio l’eleganza è la cifra di questa rivisitazione, che dall’ossatura chitarra-armonica-voce del set acustico sfocia in una parte elettrica dalle venature folk-rock, jazz e blues: un po’ come se, al posto della potenza di fuoco della futura Band, sul palco del 1966 ci fosse stata la formazione con cui Dylan ha affrontato l’ultima propaggine del suo tour infinito, quella dedicata a “Rough And Rowdy Ways”.
È la voce di Chan Marshall, allora, la grande protagonista della scena, ancor prima degli arrangiamenti (tanto curati quanto rispettosi) dei brani. Ed è la protagonista perfetta per i versi di Dylan, perché sa avvolgersi intorno a una parola, persino intorno a un’unica sillaba, con un’intensità tale da offrire un senso inatteso a tutto il brano. Basta sentire il modo in cui le allucinazioni di “Visions Of Johanna” si trasformano in una sorta di manifesto poetico (“The country music station plays soft/ But there’s nothing, really nothing to turn off”), indugiando sul nome di Johanna fino a farlo diventare il perno di ogni cosa.
È una seduzione vellutata, quella voce, che nelle sue pieghe nasconde sempre la lama di un rasoio. Il Dylan acustico era uno sciamano in preda alla febbre, la sua discepola sembra immergersi nel profondo di un sogno. La tenerezza amara di “Just Like A Woman” suona come una pagina rubata a “Blood On The Tracks”, capace di far sbiadire persino la versione del Maestro. Ma è in “Mr. Tambourine Man” che la distanza si fa più esplicita, con un controcanto malinconico che si sottrae alla melodia originale. Non è un caso che si tratti dell’interpretazione più sofferta: “Sembra la fotografia di un sogno. Ora che sono arrivata alla mezza età, in questa canzone per me riecheggia la speranza che abbiamo perso. Non abbiamo fatto un buon lavoro, come esseri umani”.
Sul versante elettrico, il timbro di Cat Power si adatta alla perfezione ai contorni di “Just Like Tom Thumb’s Blues” e di “Leopard-Skin Pill-Box Hat”, per poi lasciarsi andare all’andatura sinuosa di “Baby, Let Me Follow You Down” (“This was fun!”, esclama alla fine). La tensione iniziale ormai si è sciolta (“Mi tremavano le mani così forte che dovevo tenerle in tasca”) e il pianoforte di “Ballad Of A Thin Man” introduce il momento più magnetico della serata, con il suo “Do you, Mr. Jones?” che si fa sempre più implacabile e incalzante a ogni strofa. Dalla platea arriva anche l’inevitabile “Judas!” (un po’ troppo in anticipo rispetto al copione, a dire la verità…). Chan giura di avere reagito d’istinto, rispondendo in un soffio con un antitetico “Jesus!”: “Volevo mettere le cose in chiaro: in un certo senso, Dylan è una divinità per tutti noi che scriviamo canzoni”. “God Dylan”, lo chiama di solito. E il Grande Vecchio, potremmo scommetterci, osserva la scena a debita distanza, con una smorfia che potrebbe persino nascondere un sorriso.
07/12/2023