"Il Mediatore fra il cervello e le mani dev'essere il cuore". La frase è presa direttamente dalla pellicola cult "Metropolis" di Fritz Lang, il progenitore di tutte le distopie su grande schermo che si sono susseguite per quasi un secolo fino ai giorni nostri. Renato Abate, in arte Garbo, non è un cineasta e non maneggia tematiche fantascientifiche, non usa cioè espedienti fingendo di guardare dentro al futuro per osservare il riflesso della verità che è già davanti a noi. La sua è una forma di espressionismo lirico e musicale da osservatore che non dispensa soluzioni, semmai un punto di vista sensibile che prende atto della realtà per trasferire all'ascoltatore il beneficio del dubbio: siamo certi che quanto stiamo vivendo sia l'affascinante snodarsi del progresso, e non invece la deriva della distopia che si autoavvera?
Il sentimento di questa sommessa riflessione è tutto in questo salto "Nel vuoto", sedicesima prova sulla lunga distanza dell'artista lombardo, oggi come mai poco incline a scendere a patti col mondo, specie se dietro la patina scintillante del rumore social, in cui tutto si misura a colpi di clickbait, si può toccare con mano un palpabile sentimento di perdita. Perdita di idee e di arte in un mondo che, intingendo nel vuoto culturale che esso stesso ha creato, accentua le differenze sociali e anestetizza ogni ribellione grazie al fascino inebriante della tecnologia.
Sono trascorsi quattro decenni dalla Berlino che "va bene", dai palchi sanremesi di "Radioclima" e di "Cose veloci", e otto anni dalla brillante apocalisse industrial di "Fine", licenziata a quattro mani col valente Luca Urbani presente dietro alle quinte anche in questo lavoro. Chi ha attraversato il tanto della carriera di Garbo che c'è stato in mezzo - spesso lontana dai circuiti mainstream non già per snobismo ma per oggettiva incompatibilità con quel tipo di mondo - non potrà trovare in questo album che una calibrata sintesi di un messaggio coerente cui però occorre sottrarre una certa inquietudine data da un'urgenza placatasi nel tempo, e sommare una disincantata posatezza che regala un equilibrio forse mai raggiunto prima.
Di "berlinese" c'è la concezione del progetto che si snoda su due facciate, una pop e l'altra ambient, del tutto assimilabile ai "Low" e "Heroes" di bowiana memoria, ma anche l'intro della toccante rivisitazione in chiave intimista della già edita "Sembra" ("La moda", 2012) che, complice il raffinato piano man Eugene, rimanda dritto alla atmosfere decadenti dell'altro padre putativo Lou Reed e del suo "Berlin" appunto, senza tradire quello "stile Garbo" che è, in fin dei conti, la matrice dell'esistenzialismo post-moderno espresso in varie fasi dalla musica italiana dagli anni 80 ad oggi.
Non serve andare tanto oltre per comprenderlo giacché il singolo "Come pietre", che apre la "pop side" e anche il disco, chiarisce una volta per tutte quale sia stata un'importante fonte di ispirazione per i Baustelle, ad esempio, oltre che regalare una polaroid da inserire a futura memoria nell'album fotografico dell'anno 2023: "Guarda quanta gente pesa poco o niente, dentro le città c'è tanta polvere che occupa la vita, che riempie i tuoi pensieri fatti di miraggi... e le parole erano pietre, oggi vapore" imprime sui solchi lo strisciante disagio dato dal disvalore sociale che viviamo, reso ancora più oscuro dalla luccicante vacuità di cui è vestito. Lo stesso accade fra smarrimento e illusione nella canzone che dà il titolo all'album, impreziosita dalle orchestrazioni sintetiche del maestro Roberto Colombo, l'anima grigia che stava dietro al periodo elettronico dei Matia Bazar ma, guarda caso, anche allo storico trittico 83-85 del nostro: "Quanti anni hai?" (con Antonella dei Matia Bazar a duettare), "Radioclima" e "Cose veloci".
"Mai più" si avvale ancora dei contributi, questa volta electro, di Eugene per levigare un midtempo dai sapori decadenti in cui l'oggi è visto dalla prospettiva di un futuro (si spera) migliore, mentre ne "Il mondo esplode" si arriva dritti al punto, con un rock a tinte industriali a metà strada tra "Fine" e "l'Extra Garbo" più diretto di fine anni 80.
Ma a sorprendere anche i fan più affezionati è sicuramente la "ambient side", nella quale il vuoto viene riscritto in chiave inaspettatamente dronica, nel fluire delle tre composizioni che occupano l'intero secondo lato del lavoro, tra l'inquietudine profonda di "Coscienza", i bagliori di "To Mars" che in parte rimandano agli intermezzi di "Scortati" e alle atmosfere della sua "On The Radio" e il viaggio dal sapore sylvianiano di "Contatto" per un epilogo tanto elegante quanto romantico, nell'accezione letteraria del termine.
A quasi un secolo dal film, Renato Abate - in arte Garbo - è il novello eroe Fredersen di "Metropolis", è il cuore che vuole unire mani e cervello. Ci riuscirà?
16/04/2023