In un mondo dove notizie e polemiche si susseguono alla velocità della luce e vengono spremute fino all’ultima goccia per un commento o un click in più, il mood zeppeliniano dei Greta Van Fleet ormai non fa quasi più notizia, e questo potrebbe essere decisamente un bene per la band, il cui tentativo di svincolarsi da tale etichetta sembrava senza successo. Lo stesso “Starcatcher”, terzo capitolo della formazione del Michigan, ha apparentemente suscitato meno clamore mediatico, aggiudicandosi tuttavia la prima posizione della classifica rock e l’ottava di quella generale negli Usa, tenendosi stretta una solida schiera di fan e un’altra ugualmente robusta di detrattori.
Pervaso da un’atmosfera quasi religiosa, l’album segue il percorso tracciato da “The Battle At Garden’s Gate” e punta nuovamente su brani di matrice hard-rock macchiati di psichedelia e segnati da passaggi di carattere progressive, focalizzando la propria attenzione su semi-ballad articolate e testi incentrati sulla libertà di essere se stessi senza timore, incoraggiando l’auto-espressione. A determinare una svolta relativa all’impegno del quartetto, alla tipologia di pubblico con cui esso si interfaccia, e porre l’accento sul significato stesso del disco, è stato senz’altro il coming out di Josh Kiszka, passo molto importante e al contempo temuto dal frontman, avvenuto un mese prima della pubblicazione.
L’incedere epico e le arie prog di “Fate Of The Faithful” riprendono le fila del sophomore, mentre richiamano la produzione d’esordio, e le conseguenti e ben note fonti d’ispirazione utilizzate tuttavia con intelligenza, la discreta ballad “Waited All Your Life” e l’efficace e incalzante “The Falling Sky”, storia di un bluesman che combatte per cambiare il proprio destino, il cui passaggio ad armonica strizza l’occhio notevolmente alla “Nobody's Fault But Mine” inclusa in “Presence”. Traccia chiave dell’opera, “Sacred The Thread” illustra il senso di libertà scaturito dall’autentica espressione di sé, facendo riferimento agli abiti indossati da Josh durante le sue esibizioni e al suo impegno all’interno della comunità LGBTQIA+.
Si sposta verso un blues-rock scanzonato e venato di country la brevissima sferzata “Runway Blues”, spartiacque che segna la metà dell’album e guarda a Link Wray e ai guitar-riff dei Deep Purple di “Highway Star”, nonché cartuccia sparata a salve e non sfruttata fino in fondo al massimo del suo potenziale. I cori e gli intrecci di tastiera e chitarra dagli umori seventies su “The Indigo Streak” conducono verso reminiscenze progressive-rock degli Yes; a essi fanno seguito i passi trionfali di “Frozen Light”, che riprende parte delle strutture già sperimentate in “Age Of Machine” e “Built By Nations”, alzando il tiro con i riferimenti biblici e le trame chitarristiche di “The Archer”. La solenne e ben riuscita “Meeting The Master” rimanda alla “Trip The Light Fantastic” del precedente capitolo e trae ispirazione dalle melodie orchestrali e folk di “Reasons For Waiting” dei Jethro Tull, lasciando la conclusione a “Farewell For Now”.
A fronte di un’innegabile preparazione tecnica, riscontrabile anche e soprattutto nella loro dimensione live, i Greta Van Fleet all’interno di “Starcatcher” restano saldamente ancorati alle loro radici tra hard-rock e prog, sfumate talora di psichedelia e di blues: una maggiore elaborazione e personalizzazione di tali influenze, e un paio di passaggi grintosi in più, avrebbero potuto far loro guadagnare i punti necessari per superare ampiamente la sufficienza. Si nota invece una piccola crescita in termini di qualità di songwriting e tematiche trattate. Seguito ideale di “The Battle At Garden’s Gate”, l’opera conduce il quartetto statunitense a un passo da quella che potrebbe essere la svolta decisiva per il suo futuro.
21/09/2023