Un’aura distante, la memoria di una voce. Potrebbe essere la ninnananna cantata da un fantasma, o forse una fotografia ingiallita che prende vita. La giostra comincia a girare, ma la musica resta impigliata tra i resti di un luna-park abbandonato.
Inizia così “A Floodplain Mind”: come un racconto in cui il tempo sembra scorrere fuor di sesto. Le sue canzoni vengono da un buco nero temporale: dieci anni in cui i Misophone sono spariti nel nulla. L’elusività è sempre stata una caratteristica del duo inglese, ma stavolta S. Herbert e M.A. Welsh avevano perso le tracce l’uno dell’altro da un po’, più o meno dai tempi di “Lost At Sea”. Finché, un bel giorno, Welsh si è visto recapitare un pacco. Dentro c’era una chiavetta Usb, e sulla chiavetta c’era solo una scritta: “It begins…”. E l’avventura dei Misophone è (ri)cominciata.
Siamo nella cameretta della nostra infanzia, eppure qualcosa non torna. Gli oggetti più familiari, come in una scena di “Skinamarink”, assumono contorni estranei. Attraverso le pareti arriva l’eco della musica: melodie giocattolo, sigle di programmi mai andati in onda, danze rubate a un grammofono in soffitta. “A Floodplain Mind” è la colonna sonora di questo sogno, del viaggio negli spazi liminali del ricordo attraverso le immagini sgranate di un filmino amatoriale.
Gli spettri del passato continuano a infestare il presente, direbbe Mark Fisher, e lo struggimento di “All The Ghosts Of Evening” lo conferma subito: “These are the days I’ll remember/ Always with a hint of sadness”. Al posto della fragilità di un tempo, ora c’è un timbro più morbido, un suono più corposo. Sempre però con quell’inconfondibile obliquità di ascendenza Elephant 6/Sparklehorse, capace di trasfigurare i risvolti nostalgici di “These Days Of Ours” (“These days of ours, were never ours”) in uno stralunato campionario psych-pop.
“A Floodplain Mind” è una sorta di enciclopedia della musica dei Misophone, un doppio album che passa in rassegna praticamente tutte le possibili declinazioni delle fantasmagorie di Herbert & Welsh, manipolandole con lo sghembo senso melodico di un Daniel Johnston apocrifo. Basta sentire il passo svelto di “Apple” per ritrovarsi subito a casa, tra sibili di tastiere, tintinnii e divagazioni gitane che rimandano alle sonorità più classiche del duo (ma con la compiutezza dei loro lavori migliori).
Al tempo stesso, però, l’anima dei brani svela un profilo più cantautorale, con un cesello che testimonia la lunga gestazione dell’album. Se gli Eels sono sempre stati una delle pietre di paragone dei Misophone (ascoltare “River Bed” o “Monsters” per credere), questo è il loro “Blinking Lights And Other Revelations”, con tanto di corredo di brevi interludi strumentali (e di spoken word dal sapore cinematografico).
Sembra rubata a qualche banda di paese, la fanfara che porta “Sunlight” a volteggiare a braccetto con una sarabanda di tastiere. Dentro c’è tutto l’amore dei Misophone per il folklore dell’Europa dell’Est, con l’ingrediente essenziale del trombone di Tom Rocton (Alone With King Kong): è il suo luccichio a guidare pigramente “Apricity”, conducendola nel mezzo di una sagra a casa dei Beirut; e tocca sempre a lui spargere i colori di un mattino solitario sul piano elettrico di “Curse The Crows”, perfetta elegia per l’esilio dal mondo.
Nonostante la proverbiale ritrosia dei Misophone, “A Floodplain Mind” è un disco straripante di incontri e di collaborazioni: oltre a Tom Rocton, c’è la chitarra di Robin Allender (già al lavoro con Gravenhurst) che ricama sulla lentezza ovattata di “Snow”, c’è la voce estatica di India Blue che galleggia sulle note di “Love Lies Bleeding”, c’è la varietà di strumenti più o meno bizzarri portati in dote da Chris Vibberts (dal khim al marxofono). Ma l’elenco è lunghissimo (compresa un’orchestra da camera in miniatura sul valzer-manifesto di “The Flood”) e rivela tutta la cura dedicata da Herbert e Welsh ai dettagli di questo doppio album.
Attraverso le backrooms di “A Floodplain Mind”, ogni corridoio rivela stanze inattese: dal folk agreste di “Yarrow” al brioso bedroom pop di “Strange And Sombre”, passando per la solennità in stile Timber Timbre di “Joy” e l’immersione nella tradizione inglese di “William And Mary”. A persistere è l’umore malinconico dei brani, che dalle tinte autunnali della copertina (affidata per la prima volta a un dipinto di Welsh) scivola verso i panorami innevati dell’inverno, con l’accompagnamento del carillon festivo di “Wisdom’s Winter Day”.
I fantasmi di ieri inseguono quelli di domani, e in “The Days Run Madly” il tempo si sfalda in una direzione inafferrabile. Lo specchio restituisce un riflesso impietoso: “Deluded and obscene”, cantavano i Misophone in uno dei loro vecchi brani; “obscene and still deluded”, si riconoscono oggi. Eppure, la luce che filtra tra i rami spogli degli alberi porta ancora con sé un’altra possibilità. Uno sguardo nuovo, l’imporsi delle cose. E l’attesa della bellezza.
And for a moment I am gladly nothing
Just a ghost who will gladdened madly stare
At beauty in its maddening precision
And wonder at the thoughts that flood my mind
Ridiculous, obscene and still deluded
But hoping still one beauty I may find
01/12/2023