Con un profilo critico quasi indenne da rimproveri e incertezze, Hollie Fulbrook ritorna in campo a quattro anni di distanza dall’ultimo “Olympic Girls”, album ritenuto da molti come l’opera più matura della cantautrice neozelandese.
I primi passi del progetto Tiny Ruins sono stati contrassegnati da uno stile scarno e fortemente ispirato, con la Fulbrook in solitaria a reggere le redini di una musicalità folk dai toni malinconici e invernali, ben presto evolutasi, grazie a un contratto discografico con la Bella Union, verso sonorità leggermente più policrome, eppur fedeli a una verve poetica sempre più personale. Un pizzico di psichedelia e una velata bruma dream-pop hanno fatto il resto, trasformando il progetto Tiny Ruins da esternazione solista a opera corale, con una band consolidata e sempre più affiatata.
Il timore che “Olympic Girls” potesse rappresentare l’apoteosi e l’inizio della normalizzazione era lecito, tuttavia non solo “Ceremony” è l’ennesimo passo nella giusta direzione, ma è anche il disco che rischia d’intercettare un pubblico più ampio, senza scendere a compromessi o cedere il passo alla routine.
Inutile struggersi nella ricerca di rivoluzioni copernicane: gli sfondi strumentali sono sempre lievi nonché refrattari a melodie poco austere. Cass Basil (basso), Alexander Freer (batteria e percussioni) e Tom Healy (produttore e non solo) dispensano abbellimenti ed elaborate rifiniture sonore, senza snaturare l’intensità descrittiva delle canzoni di Hollie Fulbrook.
Quel che fa la differenza è un’inattesa fluidità che è subito percepibile nelle spigliate sonorità di “Dogs Dreaming”, un brano che affonda le proprie grazie nel pop con ariose armonie, un organo hammond che detta le coordinate e incastri strumentali che rasentano la perfezione.
Alberi cullati dal vento, onde marine ricche di forme di vita, un’anima messa a nudo e la rassicurante compagnia degli animali e della natura: “Ceremony” celebra un rito collettivo di purificazione dalla civiltà industriale. Le melodie sono semplici eppur nobili, sfiorate da accordi graziosi di chitarra e tamburelli (“In Light Of Everything”) o da arpeggi classicheggianti e spagnoleggianti puntellati dal solido suono del contrabbasso (“Diving & Soaring”). Sono canzoni a volte quasi rarefatte, nonostante i ricchi dettagli strumentali e vocali (“Seafoam Green”).
Nel fragile eppur profondo equilibrio che Hollie intesse con la band, c’è spazio per pagine decisamente più ricche di energia: un groove chitarristico tipicamente country-rock-blues alla Neil Young offre una spinta a “Dorothy Bay”, proiettandola oltre i pur interessanti confini creativi, ed è stimolante il contrappunto tra il rigore ritmico e l’evanescenza lirica di “Daylight Savings”, ennesima dimostrazione di una sintonia con la band sempre più solida e creativa.
Anche la ballate folk in preda alla malinconia, quelle che si potrebbe osare definire in stile Nick Drake, hanno elementi spuri, come la struggente “Out Of Phase”, resa greve dal suono degli archi e turbata da una chitarra sibilante e da un tempo ritmico cadenzato; o la languida e quasi psichedelica “Earthly Things”, che si destreggia tra inquietudine e ironia, associando a un black-out elettrico un analogo stato emotivo.
L’aspra bellezza della musica dei Tiny Ruins dona un fascino atipico a ballate folk altrimenti convenzionali e prevedibili: che sia la magia della voce in “Dear Annie”, l’ardimentoso pizzicare delle corde di “Sounds Like” o il sublime suono sopra le righe e velatamente jazz di “The Crab/Waterbaby”, è evidente che Hollie Fulbrook e la sua band sono in stato di grazia emotiva e artistica.
Per la band neozelandese è tempo di uscire dai pur titolati confini degli artisti di culto, e “Ceremony” è l’occasione giusta per un più ampio suffragio popolare.
01/07/2023