“L’universale risiede nel particolare”: parola di Matthew Milia, da sempre anima (e penna) dei Frontier Ruckus. Il parcheggio di una stazione di servizio, le casse di un negozio di fai da te: raccontare il dettaglio più anonimo, tra le pieghe della realtà di tutti i giorni, per cercare di cogliere lì dentro un senso. “Più sei specifico, più in qualche modo l’universale riesce a emergere”.
È così che, in ormai oltre quindici anni di carriera, i Frontier Ruckus sono riusciti a tracciare una sorta di cartografia sentimentale della suburbia americana. Oggi, dopo una lunga pausa dal precedente “Enter The Kingdom”, la band di Detroit (ormai in formato trio, da quando Anna Burch ha deciso di prendere la propria strada) torna con il suo album numero sei. Ed è l’occasione perfetta per riscoprire quel cantautorato nostalgico, perso in qualche angolo del Michigan in compagnia delle ombre di Elliott Smith e degli Okkervil River, che è diventato ormai la cifra delle canzoni di Milia e soci.
L’incipit di “Swore I Had A Friend” mette subito in campo tutto il campionario più classico del gruppo: l’ossatura del banjo, le coloriture dei fiati, gli spettri della singing saw, la tonalità indifesa della voce. È come se i Frontier Ruckus, stavolta, si fossero decisi a essere semplicemente sé stessi: “A un certo punto abbiamo capito che non avremmo mai venduto un milione di dischi, che non saremmo mai diventati i prossimi Wilco”, confessa Milia. “La mia voce sarebbe stata sempre troppo nasale, nei miei testi non avrei mai smesso di scrivere del Michigan. E noi, come band, non eravamo disposti a cambiare nulla di tutto questo”. Ecco perché i Frontier Ruckus, dopo le ambizioni indie di capitoli come “Sitcom Afterlife”, sembrano voler riportare tutto a casa. Non a caso, la nascita di “On The Northline” è stata resa possibile da una campagna di crowdfunding su Kickstarter: una scelta che ha contribuito a rinsaldare ulteriormente il legame con i seguaci più fedeli di questo piccolo culto a stelle e strisce.
Fin dal brano che dà il titolo al disco, è la linea d’ombra del passaggio all’età adulta il cuore delle nuove canzoni. C’era una volta l’adolescenza, quando aggiustare la vita e mettere l’apparecchio per i denti sembravano entrambi obiettivi a portata di mano: poi, però, gli anni passano e i denti cominciano a tornare inesorabilmente storti come prima, in una sorta di deriva dei continenti esistenziale… “Fifteen years after the high school braces lift”, canta Milia, “The tectonic molars and incisors start to shift”. Dal finestrino scorrono i panorami dell’entropia del Midwest – vecchie insegne di McDonald’s e campi da golf abbandonati – mentre il proprio riflesso testimonia il correre via del tempo: “A ten-year-older version of you/ Kneels in the dark ditch/ And shows you what is real”.
“On The Northline” è un susseguirsi di melodie agrodolci e di polaroid in controluce, che la calligrafia di Milia riempie di didascalie meticolose. “Clarkston Pasture” invita a unirsi al coro con un passo più sostenuto, “The Machines Of Summer” scivola verso orizzonti country-folk, i chiaroscuri remmiani di “I’m Not The Boy” vanno a sfociare in una coda di tromba alla Belle And Sebastian.
“Quello che mi piace del fatto di invecchiare”, riflette sempre Milia, “è che inizi a diventare lungimirante riguardo al quadro più ampio dell’arco della tua vita”. E la sua vita, negli ultimi tempi, di cambiamenti ne ha attraversati parecchi, dal matrimonio fino alla paternità. Proprio alla moglie è dedicata “First Song For Lauren”, l’episodio più scarno del lotto, una ballata per voce e chitarra registrata di getto su un iPhone nell’urgenza dell’innamoramento, quando la possibilità stessa della felicità sembra talmente fragile da potersi dissolvere in un istante (“Nothing will ever scare me/ Like the chance of something good/ When it seems like it’ll happen”).
L’amore vero, però, è quello che viene dopo, quando ci si ritrova a guardarsi negli occhi una mattina, sulle note morbide di “Mercury Sable”, ancora incapaci di dare un nome a quello che è successo alla propria vita, eppure quasi increduli della strada percorsa insieme. “And I’m sorry I can’t make sense/ Of something so completely intense”: forse un giorno lo troveremo, quel nome, e allora ci sembrerà di averlo saputo da sempre. Rideremo di quanto siamo stati stupidi, e di quella casa che volevamo comprare prima di diventare troppo vecchi.
22/04/2024