Il nuovo album di
Kamasi Washington nasce sull’onda delle sue riflessioni sul dolore per la perdita di amici e parenti, ma soprattutto sul proprio ruolo di padre dopo la nascita della figlia Asha. La risposta è un'opera magniloquente, nonostante gli 86 minuti di durata, pochi per le abitudini del musicista americano. Un lavoro corale che fluttua tra un numero cospicuo di
featuring e un passo ritmico più marcato, con la solita
grandeur esecutiva associata a sonorità post-bop, funky,
soul e
hip-hop.
L’aver riportato il jazz all’attenzione del grande pubblico è senz’altro il merito indiscutibile di un personaggio controverso eppur importante. “Fearless Movement” è il primo album di Kamasi Washington da ben sei anni a questa parte, un disco che conferma la matrice di
Herbie Hancock nell’approccio senza limiti e poco ortodosso, riproponendo quell’enfasi emotivo-drammatica che ha contrassegnato “
The Epic”.
Ricco di movimento e fluidità sonora, “Fearless Movement” è descritto dallo stesso Washington come un album dance, ovviamente nell’accezione più affine al jazz e alla musica black. E' senza dubbio il suo progetto più accessibile, in cui a grintose contaminazioni con il rap - con un eccellente assolo di basso dell’amico
Thundercat (“Asha The First”) - fanno da contraltare eteree e spirituali divagazioni cosmic jazz, con il flauto di
Andre 3000 in bella evidenza (“Dream State”).
La complessa e ampia visione orchestrale delle passate opere di Kamasi Washington è sensibilmente ridimensionata, addolcita nelle delicate trame soul di “Computer Love”(una cover degli Zapp), in converso in piena euforia creativa e strumentale in “The Garden Path”, brano che offre alcune delle sue migliori
performance da solista. L’elemento che diversifica “Fearless Movement” è una più marcata presenza di elementi hip-hop, rap e funky, con
George Clinton e D Smoke ad agitare le acque più pop di “Get Lit” e una languida “Togheter” che alfine sottolinea una lieve stasi nell’insieme, una sensazione che fa capolino anche nella lunga dissertazione di “Road To Self (KO)”.
Piccoli nei di un'opera comunque intensa e non priva di slanci ambiziosi (“Lines In The Sand”) e di due momenti poetici di rara intensità, ovvero la frenetica preghiera dell’introduttiva “Lesanu” e l’inattesa versione di un brano di Astor Piazzolla, “Prologue”, che assume i contorni di un incendiario be-bop, riassumendo l’eleganza e il brio dell'album.