Breaking stretch, lo strappo, la tensione che porta alla rottura. Come si fa ad avvertirla? Come si riesce a comprendere quando si è giunti a quel punto e fermarsi quindi al momento opportuno? Ogni disciplina ha i suoi metodi e processi per rilevare l'approcciarsi di tale soglia. La percussionista messicana naturalizzata statunitense Patricia Brennan, fantasista del vibrafono e della marimba con solidi studi classici (notevoli i suoi contributi strumentali in lavori di Matt Mitchell, Mary Halvorson, Tomas Fujiwara), adatta il concetto al jazz, ponendosi al servizio di un approccio compositivo che vede nell'espansione dei limiti il proprio principio cardine. Espansione sotto tutti i punti di vista: aggiungendo agli strumentisti del suo quartetto More Touch (Macrus Gilmore alla batteria, Mauricio Herrera alle percussioni, Kim Cass al basso) una dinamica sezione di fiati (Adam O'Farrill alla tromba, Jon Irabagon ai sassofoni contralto e sopranino, Mark Shim a quello tenore) la musicista coordina un settetto d'eccezione, teso a esplorare un febbricitante linguaggio ritmico, tanto curioso nelle premesse quanto poi nei risultati. Come il fiume di lava immortalato in copertina, l'energia sprigionata dalla line-up è inesorabile.
Non è parca di commenti, Brennan, nel raccontare per filo e per segno i moti, l'ispirazione, gli appigli narrativi e concettuali che hanno portato allo sviluppo dei nove brani che compongono “Breaking Stretch”. Nel booklet che accompagna l'edizione fisica del disco (la Pyroclastic di Kris Davis a curarne l'uscita, come è stato per l'eccellente “Laugh Ash” di Ches Smith) la musicista, compositrice di ogni singolo pezzo, ha premura di spiegare ogni singola decisione presa per il progetto, chiarire genesi e filosofia di un approccio creativo cucito su misura dell'organico e delle circostanze realizzative.
È palese come le ascendenze latine siano da sempre un aspetto di vitale importanza per l'autrice. Già “Maquishti” nel suo ossuto essenzialismo vibrafono e marimba esplicitava i contatti con gli stilemi propri dell'area messicana e caraibica. “More Touch” approfondiva tali relazioni con un impianto ritmico più solido e stratificato. Alla volta del terzo disco, il fuoco divampa senza alcun freno, ridefinisce la genealogia e il legame con la natia Veracruz in un prisma espressivo che con soli sette elementi mira a ottenere la pienezza di un'orchestra, a riempire tutto lo spazio a disposizione, spingendo fino al limite massimo il potenziale esecutivo degli strumenti, ottoni in primis. Quel che emerge non solo è una testimonianza del profondo amore di Brennan verso il ritmo ma uno straordinario studio sulla tensione, così come sui nuovi equilibri che essa sa originare.
Nasce così una soca imbizzarrita come quella che anima “Los otros yo”, le varie sfaccettature del proprio essere che procedono di pari passo grazie a linee melodiche che ora si intersecano, ora rifuggono il contatto, animate comunque da un intento espressivo comune. In questa molteplicità dell'identità, Brennan si rivela coordinatrice fantasiosa, indirizza gli ottoni verso estrose improvvisazioni funky, prima di richiamarli all'ordine e lasciarli assecondare i brillanti schemi di vibrafono, opportunamente modificato in chiave elettronica a vantaggio delle sue potenzialità esecutive. Meglio ancora fa la title track, dal taglio solo in apparenza più sospeso e meditativo, capace di tenere alto il vessillo di cotanto titolo sfruttando la sua astuta poliritmia, che porta i commenti dei sassofoni a vagare su un tappeto fatto di tempi binari e ternari in costante contrapposizione. In questa sinusoide ritmica che tanto avvolge e tanto respinge, Brennan si insinua nei fittissimi dialoghi degli ottoni con le sue invenzioni per marimba, ora attenta nel disegnare melodie in contrappunto, ora pronta a sostenere l'intera impalcatura sfruttando la sua natura percussiva, intessendo vibranti bordoni ritmici.
Tutto in fondo riconduce alle sue esperienze, ai sogni e ai ricordi di una vita intensa, contesa tra la giovinezza messicana e la maturità statunitense: in “555”, con l'elettronica che sostiene l'ensemble con fare lehmaniano, esattezza e cambiamento diventano i due fari guida, i motori da cui parte una riflessione sul sé, sulla garanzia di un flusso che può e sa avvalersi di strutture fisse, alvei entro cui lasciarsi trasportare, senza perdere di vista l'obiettivo, il desiderio di base.
“Palo de oros” trae forza dalla simbologia dei tarocchi (è il seme di denari, conosciuto anche come pentacolo nei paesi ispanofoni) e lascia sbizzarrire l'ensemble in un frastagliatissimo danzòn imperniato su una severa suddivisione dei tempi e delle macro-sezioni, tutte, tranne una, rette su cinque battute. In tale rigorosa precisione dell'incastro ritmico, il vortice che si forma pare inarrestabile: vi è tempo per una lunga anticipazione di basso, come anche di brillanti fantasie di ottoni, con la tromba di O'Farrill a ergersi a schizoide protagonista del brano, a tratti talmente modificata da sembrare tutt'altro strumento.
Quando l'impalcatura viene meno, l'incertezza non è meno affascinante: “Sueños de coral azul” si muove proprio in una dimensione liminale, sofisticata ballata preda dell'emozione più pura, densa del dubbio di un futuro tutto da scrivere così come di un passato lasciato a fatica, che il tempo trasporta irrimediabilmente sul piano onirico. È una leggiadria insolita, nell'economia di un disco ben più vigoroso, scevra però da qualsivoglia patetismo, coordinata com'è da una mano che sa perfettamente qual è la misura da non superare.
Il numero cinque continua a giocare un ruolo essenziale per “Breaking Stretch”, diventando il punto di snodo per l'appunto di “Five Suns”: la credenza azteca che il mondo abbia attraversato cinque cicli di creazione e distruzione porta l'ensemble a riprodurla in una costante disgregazione di un motivo base, volta per volta più accentuata di quella precedente. È solo l'anticipazione di quanto avviene in “Mudanza”, che assorbe tutta la nostalgia inclusa nell'omonima poesia del poeta di Veracruz Salvador Díaz Mirón, scatenando il vero potenziale orchestrale degli ottoni e del basso, lasciati comunicare in piena libertà dopo un lungo, delicato intervento introduttivo di marimba. Sono toni dark, quelli espressi dal terzetto di fiati, commenti dal potere cinematico, allarmi di un cambiamento che giunge inarrestabile, che piaccia o meno.
La scultura “Golden Arbor” realizzata da Harry Bertoia, coi suoi ottocento pannelli saldati assieme, diventa l'epicentro delle diffrazioni in scia salsa di “Manufacturers Trust Company Building”, costantemente frenate nel loro avanzamento e amplificate da un pulviscolo elettronico che rende l'atmosfera densissima, al confine col noise. Ci pensa la stella più distante da noi finora scoperta, Earendel, a chiudere il cerchio, a disperdere nello spazio gli umori e le sensazioni racchiuse nell'album. Sopra una pulsazione uniforme, inizio e fine di ogni cosa, Brennan imposta il brano più astratto del lotto, una riflessione dai contorni free sul concetto di espansione cosmica: dopo un breve scontro dei vari strumentisti, la dilatazione si avvia ineluttabile, rende sempre più distante ogni singolo intervento, favorendo una progressiva dissoluzione che torna alla vibrazione primigenia, ultimo moto di un'opera semplicemente colossale.
Sensazionale ridefinizione di una musicista già dotata di grande sensibilità e di personalità, “Breaking Stretch” si pone come esperienza tra le più vibranti degli anni Venti di questo secolo, mostra tutto il carattere di una compositrice che qui individua la sua personale via al jazz (latino e non), traendo ispirazione dal suo vissuto per un affresco tra i più compositi e allo stesso tempo trascinanti degli ultimi tempi. Pura seduzione ritmica.
09/12/2024