Chi ha un occhio attento alla scena sperimentale britannica probabilmente ha già notato gli Still House Plants, il trio scozzese ora di base a Londra, che ha attirato l’attenzione con le sue prime produzioni e il suo bizzarro approccio “a occhi chiusi” durante le esibizioni dal vivo. Quest'anno, con l’album “If I Don’t Make It, I Love u”, la band conferma le sue promesse con una prova di maturità stilistica.
L’assetto con cui si presentano – voce, batteria, chitarra - è scarno ed essenziale. Tuttavia, niente è convenzionale nelle loro composizioni: i fraseggi intricati e le strutture asimmetriche rimandano al math-rock, ma la voce di Jess Hickie-Kallenbach introduce un calore viscerale alla Janis Joplin con una venatura malinconica. Nel brano d’apertura, “MMM”, vorrebbe essere più cool, mentre in “More Boy” ammette il desiderio di diventare più forte. La sua voce si muove in modo sorprendente in strutture che si mantengono volutamete fluide. La batteria segue un andamento oscillante, a volte leggera e quasi in contrasto, a volte interrotta bruscamente, amplificando la tensione.
Decisamente difficili da etichettare, gli Still House Plants esplorano territori che spaziano tra noise-rock e post-punk. In “Headlight” e “No Sleep Deep Risk” le atmosfere si fanno rarefatte, ma con un tocco di imprevedibilità: nel secondo brano, ad esempio, il rullante accelera vertiginosamente, lasciando però il resto della melodia sospeso in un ritmo più lento e onirico.
Frequentemente i brani flirtano con atmosfere soul e, a volte (“Pant”, “Sticky”), il loro ritmo sembra trascinarsi senza mai trovare una vera spinta. È invece quando il gruppo intensifica le distorsioni e adotta uno stile più essenziale e ruvido, quasi alla Shellac, che raggiunge un’autentica tensione espressiva. “Silver Grit Passes Thru My Teeth” inizia con i consueti toni vicini alla black music, per poi subire una svolta inattesa: una scarica di distorsione a metà brano interrompe il flusso, e da lì ogni strumento sembra prendere una direzione propria, mentre la voce tenta di rimanere ancorata alla tonalità iniziale.
Sebbene la voce lamentosa rischi talvolta di appesantire i brani, la band dimostra una notevole padronanza nel decostruire la forma-canzone, avvalendosi di loop e pause orchestrati con abilità: esemplificativa in tal senso è l’ottima “3scr3w3.
La traccia finale, “More More Faster Finale,” si configura quasi come un manifesto dello stile unico degli Still House Plants, condensando i tratti distintivi esplorati lungo l’album: ritmi irregolari, dissonanze che appaiono e scompaiono, interruzioni improvvise e delicate sfumature neo-soul. Le melodie si mantengono in equilibrio precario, sempre sul punto di cedere, creando una tensione costante.
All'incrocio tra post e noise rock e aperta improvvisazione, la band scolpisce un suono liminale, capace di trovare armonia nella disarmonia e la sovrabbondanza nella sottrazione.
09/11/2024