Kneebody - Reach

Più che a una ripartenza, “Reach” somiglia a un aggiornamento del firmware: stessi circuiti, ma il sistema lavora in modo più fluido, più sofisticato. Con questo nuovo capitolo, il primo in studio dal 2019, gli statunitensi Kneebody tornano a farsi sentire in una scena nu jazz che oggi rappresenta perlopiù un affare europeo - ma lo fanno con l’autorità di chi da sempre è, nell'ambito, una delle eccezioni più convincenti di là dall'Oceano.

La title track “Reach” è emblematica: astratta, sferzante, quasi matematica, dalle parti dei Three Trapped Tigers. Potrebbe benissimo accompagnare un puzzle game sci-fi in soggettiva - non fosse per la tromba dinoccolata di Shane Endsley, che si incarica di infondere nelle geometrie un mood più riconoscibilmente jazzistico. In “Top Hat” le anse fiatistiche sono ancora più al centro, ma il vero motore del pezzo è il confronto fra i caleidoscopi di Adam Benjamin alle tastiere e le profondità irregolari della sezione ritmica, dominata dal batterista Nate Wood, nome di punta della scena per l’inventiva dei suoi incastri. Proprio Wood spariglia le carte anche in “Lo Hi”, che parte quieta ma si increspa in un gioco di specchi prog-fusion sempre più teso, senza mai perdere spinta.
“Say So” è la chiusura e forse anche il brano più immediato, grazie a un tema agile e memorizzabile affidato alle tastiere (e di fatto anche alla batteria e al basso, entrambi a carico di Wood), sopra cui il sax di Ben Wendel si muove compassato ma espressivo, fino a quando l’intero impianto sottostante si anima e si espande in tutte le direzioni.

“Reach” non è un colpo di testa e non è un manifesto. È un disco pensato, ben scritto, solidamente suonato. La sua forza sta soprattutto lì: nell’equilibrio calibrato fra rigore e gioco, potenza e leggiadria, in una dinamica costante tra spigoli e morbidezze, che non sfocia mai nella posa.

07/05/2025