Cosa accade quando degli appassionati di musica si incontrano e scoprono di condividere la stessa, critica visione del mondo capitalista contemporaneo, la condanna del fascismo e la passione per i principi del socialismo? In molti casi, i nostri si limiteranno a scambiarsi opinioni sui propri dischi e artisti preferiti, oltre a mazzolare, almeno verbalmente, lo scempio del mercato libero, le sue sempre più ramificate contraddizioni e le terribili pulsioni di morte dei nostalgici delle “camicie nere”. Non è escluso, però, che gli appassionati di cui sopra decidano poi di mettere su una band, per trasfigurare le proprie opinioni in un mix di suoni e parole con cui continuare ad alimentare la speranza della rivoluzione. Ebbene, quando nel 2013 Alasdair Dunn (voce, batteria), Fraser Gordon (chitarra), Petri Simonen (basso) e James Johnson (violino) unirono le forze, battezzandosi Ashenspire, tutto quello che si portavano dentro da tempo trovò finalmente uno sbocco creativo di un certo spessore.
Il nome Ashenspire, come è giusto che sia quando la tua band è una delle cose più importanti della tua vita, se non la cosa più importante, non fu scelto a caso: letteralmente, “ashenspire” significa “guglia di cenere” e rimanda sia alle ciminiere industriali che per lungo tempo dominarono (e in parte ancora dominano) lo skyline di numerose città britanniche, che a quelle strutture “brutaliste” molto in voga tra gli architetti degli anni Settanta.
Macinando un vertiginoso e potente connubio di metal d’avanguardia, progressive, pennellate di jazz e musica da camera, e condendo il tutto con un’“interpretazione” vocale dalle evidenti connotazioni teatrali (Dunn si rifà esplicitamente allo Sprechgesang, il "canto parlato" usato per la prima volta da Arnold Schönberg nella sua composizione del 1921 “Pierrot Lunaire”, ma che il leader del quartetto scozzese ha rivelato di aver scoperto ascoltando il cantante degli italo-sloveni Devil Doll, quel Mario Panciera che tutti gli appassionati conoscono con il nome di Mr Doctor), gli Ashenspire, ispirati anche dalla musica di Altar Of Plagues, A Forest Of Stars, Dødheimsgard, Vulture Industries e Pensées Nocturnes, cominciarono ad alzare orgogliosamente lo sguardo con il singolo “Mariners At Perdition's Lighthouse” (2015), già emblematico del loro sound densamente strutturato e drammatico (con tanto di sezione corale che a qualcuno avrà fatto sicuramente venire in mente anche i Magma…).
Furono però necessari ancora un paio d’anni prima che la band, dopo essersi accasata presso l’italiana Code666, riuscisse a pubblicare il suo primo disco, Speak Not Of The Laudanum Quandary (6 tracce; 46:33), una feroce condanna dell'imperialismo britannico. Il laudano, ci informa la Treccani, è un “preparato di oppio con vino o alcol e correttivi adiuvanti vari” che fu molto usato, in medicina, durante l’epoca vittoriana. Si trattava di un potente analgesico e dava dipendenza. Per la band, l’espressione “dilemma del laudano” è un modo per rievocare quella “discrepanza morale” (sono parole di Dunn) che spinse gli inglesi a forzare la legalizzazione del commercio di oppio in Cina (dove la la forza lavoro era stata paralizzata dal rapido aumento del numero di tossicodipendenti), mentre in Gran Bretagna il consumo di quella stessa sostanza era severamente proibito.
Speak Not Of The Laudanum Quandary (che ripesca anche il singolo “Mariners At Perdition's Lighthouse”) dà inizio alle danze con una “Restless Giants”, in cui melodie di violino e fioriture pianistiche (courtesy of Scott McLean, che nel disco presta i suoi servigi suonando anche il sintetizzatore Moog e l’organo Hammond) fanno da contraltare a un chitarrismo circolare e plumbeo. La voce di Dunn ricorda quella di Yusaf Parvez dei Dødheimsgard in “The Wretched Mill”, un brano caratterizzato da un gioco di sponda tra progressioni metalliche e contrappunti di violino.
"Grievous Bodily Harmonies" non allenta la morsa in fatto di disperazione e atmosfere cupe: mentre il violino tesse inesorabilmente le sue trame cariche di malinconia, la musica si accende senza preavviso con vorticosa maniacalità, inseguita da una voce che è sempre più megafono di un’agonia straripante.
A una marcia “confessionale” assomiglia, invece, “A Beggar's Belief”, che procede a ritmo battente, con contrappunto di campane tubolari e mellotron (entrambi suonati dallo stesso Dunn), fino a confluire nell’ultima curva del disco, quella di “Fever Sheds”, che non risparmia heavyness, stratificazione e melodie cariche di oscuri presagi. Tuttavia, dieci minuti e rotti si fanno sentire, soprattutto perché il brano tende a tornare costantemente su se stesso e senza troppa fantasia.
Speak Not Of The Laudanum Quandary ebbe comunque buonissime recensioni e ciò diede alla band ancora più fiducia. Così, nel novembre del 2020, nei La Chunky Studios di Glasgow venne registrato, con il nuovo bassista Ben Brown e l’aiuto di alcuni amici (il sassofonista Matthew Johnson, le cantanti Rylan Gleave e Amaya López-Carromero, il pianista Scott McLean e, per finire, Otrebor all'hammered dulcimer), il materiale di Hostile Architecture, che per problemi tecnici sarebbe stato però reso disponibile solo un paio di anni dopo: “Per lo più, i problemi hanno riguardato i tempi di stampa del vinile. Avevamo i master pronti per uscire tra giugno e luglio del 2021, ma c'è stata un'attesa estremamente lunga per assicurarsi che il vinile fosse pronto per la spedizione a partire dal giorno della sua pubblicazione”. Poco male, visto che il secondo disco della band, pur conservando l’intensità del suo predecessore, risulta essere, a conti fatti, più maturo e ispirato: “Volevamo cercare di preservare l'intensità e lo slancio di 'Speak Not Of The Laudanum Quandary' sia in tutti i singoli pezzi che nell'album stesso”.
Hostile Architecture (8 tracce; 43:58) nasce dalla volontà di esplorare, attraverso la sintesi di musica e parole, le sempre più violente contraddizioni del tardo capitalismo, quelle che, spesso e volentieri, finiscono per incidere in modo devastante soprattutto sulla vita delle fasce più deboli della società. L’“architettura ostile” è quella delle metropoli moderne, in cui milioni di persone convivono l’una accanto all’altra all’ombra di edifici e costruzioni varie che sembrano essere stati progettati appositamente per amplificare, nella densità opprimente del cemento, il divario che separa i ricchi dai poveri. Da questo punto di vista, l’“architettura ostile” può essere anche letta come la forma più visibile dello spirito disumano (e anti-umano?) del tardo capitalismo. Tuttavia, per gli uomini e le donne di “buona volontà”, da intendere qui come quegli uomini e quelle donne consapevoli che il capitalismo non è una verità assoluta, ma solo una delle possibili “fedi” cui l’umanità può rivolgere le proprie attenzioni, l’“architettura ostile” può, di rimando, anche trasformarsi in una spinta a prendere in considerazione, come scrive la band sulla sua pagina Bandcamp, “le possibilità per un mondo al di là di quello che Mark Fisher chiamava 'realismo capitalista'", cioè la convinzione diffusa secondo la quale il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico attualmente percorribile, per cui è praticamente impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente, alternativa che, invece, gli Ashenspire continuano a sognare: “L'unico mondo che può funzionare in futuro è quello socialista. Il miglior mondo possibile per tutte le persone, non basato sull’idea di crescita infinita e sui margini di profitto. Il capitalismo ha portato la nostra società e il nostro stesso ecosistema sull'orlo del collasso, e penso che molte persone credano che non ci siano alternative, ma questo non è vero. Perciò, continuo a sperare in un mondo in cui le persone possano essere liberate dal lavoro disumanizzante mediante l'automazione e possano perseguire le proprie passioni, qualunque esse siano, riuscendo anche a soddisfare tutti i loro bisogni fondamentali. Ci sarà sempre del lavoro da svolgere, ma se quel lavoro riguarderà sempre più persone, allora nessuna di loro sarà schiacciata dalla costante lotta per sopravvivere. Ecco: quello sarà un mondo in cui varrà la pena vivere”.
Temi di una certa importanza, insomma, che gli Ashenspire riescono a far palpitare anche dentro la carne viva della loro musica.
“The Law Of Asbestos”, la traccia iniziale di questo disco sorprendente nel suo riuscire a tenere insieme tante cose che in altre mani potrebbero risolversi in un polpettone indigesto, apre con un malinconico preludio chamber-jazz, prima di sfociare in un febbricitante inseguirsi di progressioni post-metal, esplosioni brucianti, interludi folk e crescendo epici, un amalgama che Dunn fronteggia con feroce abbandono, facendo leva anche su ripetizioni e minime variazioni che, mentre aumentano il tasso di disagio, sembrano voler anche rispecchiare quella routine quotidiana che spinge l’uomo a disperdersi nell’anonimato del "Si" di heideggeriana memoria.
Always three months to the gutter. Never three months to the peak.
Another day to grind your fingers for the simple right to eat.
Always three months to the gutter. Never three months to the crown.
Another deep breath of asbestos in a godforsaken town
In "Béton Brut", la band si accanisce sugli strumenti con furia terremotante, passando attraverso martellanti sezioni black-metal e raggiungendo, infine, l’apoteosi con una fanfara dai toni ossessivi, perfetta nel sonorizzare la frustrazione e la rabbia che Dunn inietta poeticamente nelle sue parole: “When I couldn’t see the stars/ I stopped dreaming of space”; o ancora: “The music of the spheres spun/ in colours I had never dreamed of/ I would be lustrous, I’d be rusting in lust/ I would be wretched. I would be loved”.
Il suono del basso è più in vista in “Plattenbau Persephone Praxis” e, se necessario, sa farsi anche spigoloso, aiutando il brano a mutare in un intricato funk-jazz che cresce fino allo squasso, prima di darsi alla meccanica dell’alienazione.
I gazed into the tubes to find reason
and cathode rays beamed through my each, every nerve,
Persephone.
The natrescent glow of the after-dark Styx
and skin of white phosphorus leave me transfixed
on the monitor. And I see you there. And squinting revealing
these pixels depicting your fear.
The marble as cold as objectification.
No will of your own. Still passed between unfeeling hands.
With head to the glass, I wept
Superato il lungo interludio per coro liturgico e patetismo d’altri tempi di “How The Mighty Have Vision”, gli Ashenspire tornano a darci dentro con “Tragic Heroin”, nata dalla confluenza tra la furia razionale del mathcore, la teatralità di certo progressive-rock (i Van Der Graaf Generator di fine anni Settanta?) e tambureggianti mareggiate di veleno. Il brano, ci ha rivelato Dunn, è stato scritto con l’intenzione di far funzionare l’approccio della band nel recinto di una canzone di circa tre minuti.
Facendo leva su trame chitarristiche più minimaliste e su atmosfere decisamente melodrammatiche, “Apathy As Arsenic, Lethargy As Lead” tira dentro anche evoluzioni smooth jazz di sax, imboccando il rettilineo finale con martellante geometria
Caratterizzato da un sound mediamente più pulito, lo strumentale jazz-rock di “Palimpsest” prepara il terreno per la chiusa di “Cable Street Again”, che getta un ponte tra la musica degli Ashenspire e l’essenza gotica della darkwave.
Non è dato sapere cosa il futuro riserverà agli Ashenspire, ma la sensazione è che questi ragazzi scozzesi, reduci dalla pubblicazione di uno dei dischi più interessanti e incandescenti dell'anno, abbiano ancora molto da dire. Nel frattempo, se avete voglia di vederli dal vivo, vi toccherà volare in Germania, dove a ottobre saranno in tour.
Mariners At Perdition's Lighthouse (singolo autoprodotto, 2015) | |
Speak Not Of The Laudanum Quandary (Code666, 2017) | |
Hostile Architecture (Code666, 2022) |