Un embrione che si rigira al rallentore nel liquido amniotico, uno sguardo impressionato dal sole sino a strizzarne gli occhi, una distesa e lisergica canzone di passione, un interno frugale e fumoso, una calma saggia di 100 anni, una freakedelia inconsapevole, una riflessione a voce bassa sul guardato e percepito, mai troppo rumore per nulla: i piccoli universi paralleli/gemelli che Castanets, nell’apparentemente mite persona di Raymnond Raposa, apre come illusioni ottiche di colori talvolta carichi, talaltra appena accennati e sfumati con le dita.
Il trip comincia a San Diego, agli albori del nuovo millennio, dinanzi al quale ci si pone straniati, fuori tempo, seduti a osservare, piuttosto che a viverne i ritmi accelerati e senza precisi perché.
Raposa, spirito peculiare ed essenziale, dopo una breve carriera scolastica, interrotta a quindici anni, trascorre i successivi quattro a girovagare per gli States attraverso il Greyhound Bus, descrivendo scene di quotidiano grigiore americano, sintomatiche di una civiltà contenente microstorie di invisibili infelicità, taciute all’altro e custodite in sé, per trarne malinconiche visioni di uccelli migratori.
Il progetto Castanets è una girandola di sedici musicisti, sorta di collage di cui ogni ritaglio è una figura già nota alle cronache per i trascorsi in altri, prestigiosi percorsi: la triade Black Heart Procession, Pinback, 3 Mile Pilot, come anche Rocket From The Crypt, Tristeza…
L’intrecciarsi delle esperienze, l’estemporaneità dell’ispirazione, la possibilità di andarsi a sedere liberamente su rive oceaniche generano sonorità originali e attraversate da diversi accenti, ognuno dei quali indicatore di stati d’animo mutanti come le stagioni, in un divenire dinamico, ma felpato, mai urlato. Raposa definisce "derailed psych-country" il genere coniato; andando a scomporre in singoli fattori e cercando di attualizzare il concetto, ci si trova di fronte a una base country, dilatata sino alla narcosi psichedelica e approdante a una sensazione di smarrimento nelle maglie del tessuto sonoro, una sorta di viaggio morbido nell’Io cullato e attraversato da impercettibili correnti d’aria.
Nell’autunno 2004, l’Asthmatic Kitty Records, già forte della scoperta Sufjan Stevens, resasi conto d’essere di fronte a un nuovo, stupefacente miracolo, pubblica Cathedral , visionario esordio di Raposa, assieme ai suoi compagni di San Diego.
La voce è impastata, matura, tendente al basso, quasi a non voler aggredire l’ascoltatore, piuttosto animata dall’intento di porre con gentilezza e riservatezza le proprie storie e malinconie.
I toni di apertura si dilatano in oniriche immagini percepite in lontananza, focalizzate in uno stato psichico, in alcuni passaggi, vicino all’estasi ("Cathedral 2"); la padronanza totale del sé assume, invece, sfumature dylaniane, nel rappresentare accostamenti apparentemente improbabili, ma indicativi di meccanismi sociali stranianti ("Industry and Snow").
"You Are My Blood" regala un gioiellino emozionante e arcaico che si apre con toni marziali alla "Venus in Furs", cadenzandosi lentamente per poi chiudersi tra rumori di fondo prodotti in penombra. Mentre autunnali frammenti di desolati sentire producono la sottile assenza raccontata, alla maniera di Leonard Cohen in "No Light to Be Found".
La ballata country "As You Do" trasuda una dolcezza intervallata da aperture psichedeliche così tanto intrecciate alla base, da occuparne ogni spazio, rendendo il tutto evanescente psychic-blues, giocato sull’alternanza tra voce maschile/femminile. Chiusura luminosa di un sole nel suo punto più alto è "Cathedral 4".
La frugalità e l’essenzialità di Cathedral , pur restando delle costanti di fondo nella scrittura di Raposa, vengono rimpinguate di nuove sonorità, prodotte con l’utilizzo di tastiere, sassofoni e drum-machine , nel tentativo di inscrivere il trait d’union tra vecchio e nuovo. Questo trait d’union si chiama First Light’s Freeze , e profonde il suo primo bagliore nel 2005.
L’atteggiamento di Raposa resta identico, tipico del vivere in un determinato contesto avvertendone un costante senso di ovattamento, a volte più sottile, pertanto non compromettente la volontà di affrontare il quotidiano con realismo, a volte prepotente al punto di indurre al rifugio nelle proprie capsule protettive: immagini, sogni, rive oceaniche che siano.
La copertina del disco descrive quest’ambivalenza con una spirale psichedelica che, nella sua concentricità, pare racchiudere tre elementi: luce, acqua, terra… contaminata, quest’ultima, da ingerenze aeree, in sostituzione del fuoco, dimensione della non-appartenenza.
Dopo l’opalescente intro strumentale ("The Waves Are Rolling Beneath Your Skin"), apre la lentezza cosmica di "Into the Night", i cui silenzi vengono riempiti da una chitarra incentrata su di sé, seguita dalla terrestre "A Song Is Not Song Of The World", a tradire i primi inserti di elettronica.
Il folk vulnerabile e rammaricato di Cathedral si fa risentire nella delicata "Bells Aloud", cantata seduto dinanzi a un pubblico ristretto e definitivamente rapito dall’evanescenza della title track , sempre bramata ma di utopica realizzazione.
L’elettronica utilizzata in questo disco pare, a tratti, pulsare di un impalpabile battito Eno-ano, nell’impianto sonoro che fa da sfondo al cantato riverberato di "No Voice Was Raised", sorprendente pot-pourri che arriva a chiudere addirittura in crescendo chitarristico distorto.
Sul finire, lo sguardo, protetto dal sole con una mano, sale a guardare e ascoltare il richiamo all’ordinato volo degli Angeli/Gabbiani ("Reflecting In The Angels").
La breve parabola sembrerebbe chiudersi così, ma l’etichetta, fiutato il potenziale qualitativo, andando a ripescare nel pre-Cathedral, ci trova un Cd-r, sorta di diario di viaggio scritto e registrato nei quattro anni di vagabondaggio boehemien sul Greyhound Bus, e, come in un percorso a ritroso, si impegna a ripubblicarlo nel corso del 2006, malgrado il miracolo/rete abbia già premuto il tasto "share".
What Kind Of Cure è un essenziale scrigno lo-fi, dotato del minimo indispensabile per proiettare immagini sui soffitti delle proprie camerette, nei momenti di stand-by dall’ordinario/giornaliero.
Raposa vi appare più che mai raccolto in sé e in una fase di osservazione non-partecipata, come spettatore silenzioso e inerte.
Sul tutto aleggia nemmeno troppo nascosto uno spirito di nome Black Heart Procession, quasi a dichiarare volutamente il grembo natale, sensazione che trova conferma sin dall’inizio ("Metal On Tracks"), apertura scarna di voce e chitarra che, nel mezzo, lasciano entrare un cadenzato dialogo basso/batteria. Non si nega una strizzatina d’occhio al soul-country dell’animella triste Chris Isaak, qui rimembrato non tanto per similitudine vocale, quanto per tenebrosi passaggi noir ("Heaps Of Wheat"); lo smarrimento che, ferito, si pone domande scandite lentamente per ricevere da se stesso le giuste risposte, caratterizza "If the Raft Holds" dalla chitarra sfiorata e appoggiata a un’armonica in penombra. Il vento soffia in sottofondo nel rapimento mistico e incantato di "Crops Of Crosses", sciolto nella muta preghiera di "Maker, Make Us New".
E pare lecito, dopo aver abbondantemente sciorinato ogni dubbio e incredulità circa il mondo e i suoi paradossi, chiudere con l’interrogarsi della title track: tra le infinite possibilità, qual è la cura più efficace per lenire le ferite del vivere?
In The Vines (2007) è una storia di lacrime, perché in parte generata, alla maniera di tutte le uscite del Raposa, da un’esperienza personale, dolorosa come non mai, e storia di bramini, in parte ispirata da una fiaba hindù "The Well of Life", narrazione di salvifica speranza.
A partire dalla traccia d’apertura, "The Rain Will Come", ci si rende conto di non esser di fronte a un piagnisteo, ma a un alt-country bastante a sé, animato, come nella fiaba, dai field recording degli animali del bosco, che, insieme a vecchi e nuovi membri del collettivo Castanets, tra i quali Jana Hunter e l’amico e compagno di etichetta Sufjan Stevens, contribuiscono a rendere corale l’atmosfera di tutto il disco, fungendo da nicchia complice e discreta, pronta a intervenire nel momento giusto, in una (condi)visione lieta ("Westbound, Blue").
A metà dell’opera, il cuore pulsa di una catarsi a occhi chiusi, in cui la vecchia affinità con Black Heart Procession incontra l’estasi ancestrale delle percussioni ("Strong Animal"), sciogliendosi in onde sonore di ovattato pulsare, come in un moto di rallentata, perpetua oscillazione ("Three Months Paid"), e il ricordo di vecchie tormentate notti è ridotto a una volutamente facile equazione che tutto culli con dolce chitarra ("The Night Is When You Can Not See").
Sul finire, la malinconia sembra sfumare nella calma lunare di un cantato à-la Leonard Cohen ("Sounded Like Train, Wasn’t A Train"), per chiudere il cerchio di una ritrovata, pacificata coralità d’acquatica consistenza.
Come in una sorta di tonificazione dello spirito, riflessa in un registro sonoro ancor più basso e cavo, di ruvida, dimessa bellezza, In The Vines è l’evoluzione di un percorso di crescita interiore e musicale capace di mostrarsi anche nelle ferite, senza recarne onta alcuna, ma con sincera dignità.
Un anno dopo Rapoosa incide City Of Refuge (2008) per la fedele Asthmatic Kitty, in compagnia di alcuni amici di sempre (Jana Hunter e Sufjan Stevens), e di nuovi ospiti come Dawn Smithson (Jessamine, Sunn O)))) e Scott Tuma (Souled American, Boxhead Ensemble). Un disco che fotografa i colori dell'autunno e il suo volgere all’inverno. Quindici tracce, generate in tre giorni, nella solitudine di una stanza di un motel del Nevada, ripercorrono il processo di interiorizzazione della realtà circostante.
Il gioco degli opposti è il pendolo dell’album: dall’essenzialità acustica di "Celestial Shore" e "The Quiet", ai diversi punti di vista, espressi in un linguaggio quasi del tutto elettronico, nelle tre versioni di "High Plain".
L’avamposto scelto per fermarsi a pensare e creare può assumere le sembianze di una fragile nebulosa ("Refuge 1"), o di una finestra dischiusa ai cristalli della brina, in un’alba che annuncia un mattino di luminoso gelo ("Refuge 2"). Nel mezzo, una manciata di tesori custoditi in una pulsante cassaforte emozionale, che ci fa ripercorrere la storia di un songwriting scarno, iniziando dalla malinconia à-la Leonard Cohen, e finendo con il dialogo dimesso, proprio dei quasi coetanei Mi and L’Au ("Glory B"), il tutto impreziosito dal coro spettrale della fedele Jana Hunter.
Andando a scavare un po’ più in fondo, arriva anche l’ora delle fiabe, confezionate su misura per bambini ancora capaci di stupirsi ("I’ll Fly Away"). Fiabe che, a volte, possono fare i conti anche con le più ancestrali paure, animate da fiere dei boschi che, se in un primo momento ammutoliscono, smorzando qualsiasi tentativo di rispondervi ("The Destroyer"), possono poi smuovere l’inconscio, sino a liberarlo e lasciar fluire un pathos tenuto a freno ("Savage").
Quel che resta è pacificazione. Dopo l’inverno, il ciclo della vita ritorna purificato, pronto ad assorbire la Bellezza che ancora (r)esiste, forte di una capacità tutta umana di (inter)agire senza la volontà di potenza propria di un cattivo (stra)fare ("After The Fall"), capacità qui testimoniata dalla sapiente combinazione tra chitarra, elettronica e field recording che intesse con grazia l’intero album.
Se City Of Refuge lasciava aperto lo spiraglio della stanza di un motel, ventre essenziale di una gestazione, una nascita e uno sviluppo umbratili, umorali, dicotomici nel loro alternare luce e ombra, Texas Rose, The Thaw And The Beasts (2009) viene concepito nell'interazione. Con se stessi, con l'altro, con l'invisibile.
Il registro vocale incede più ruvido, eppur limpido che mai, già dall'essenziale gospel bianco d'apertura ("Rose"), deragliando nel blues più crepuscolare e psichedelico di "My Heart", vera, formidabile gemma, tra le più rilucenti mai realizzate dall'artista, il cui strascico, quasi come secondo, lynchiano movimento, prosegue in "Trouble", resa ancor più straniante dalla voce filtrata e possibile colonna sonora di un nuovo "Cuore Selvaggio".
Parlare di solarità, mondanità, velocità metropolitane è violare l'identità di un artista che pare essersi materializzato dal deserto, ma escludere a priori la possibilità di una viva pacificazione è un ulteriore inganno, considerando le delicate pulsazioni di "Worn From The Fight (With Fireworks)", momento di gioiosa partecipazione al mondo. Di diversa fattura, invece, l'eccezione tutta elettronica e floydiana di "Lucky Old Moon", incastonata tra le stelle, incisa nel blu notte. E poi, prima che questi non troppi minuti di esclusivo piacere del contemplare abbiano fine, Raposa, ancora una volta, riporta alla luce l'infinita ed eterna grazia del Maestro Leonard Cohen, nel suo mai troppo invadente sorriso alla realtà ("Dance Dance").
Cathedral (Asthmatic Kitty, 2004) | 7,5 | |
First Light's Freeze (Asthmatic Kitty, 2005) | 7 | |
What Kind Of Cure (Asthmatic Kitty, 2006) | 6,5 | |
In The Vines (Asthmatic Kitty, 2007) | 7 | |
City Of Refuge (Asthmatic Kitty, 2008) | 7,5 | |
Texas Rose, The Thaw And The Beasts (Asthmatic Kitty, 2009) | 7,5 |
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