"Of Sovran power, with awful Ceremony
And Trumpets sound throughout the Host proclaim
A solemn Councel forthwith to be held
At Pandæmonium, the high Capital"
(John Milton - "Paradise Lost")
Così come accade un po’ in tutti i generi, anche il metal estremo ha le sue meteore, formazioni che sono durate una manciata di mesi, nei casi più fortunati una manciata di anni, magari registrando qualche promo, un disco appena (e, in quel caso, potevano già dirsi fortunate!), affidando le loro speranze ad un’eventuale riscoperta postuma. Non sempre, comunque, le meteore meritano di essere riscoperte, ma se sono qui a raccontarvi una storia, evidentemente avrò i miei buoni motivi. Anzi, uno, ma basta e avanza: The Luster Of Pandemonium, una delle perle nascoste del death-metal degli ultimi anni. A registrarla, nel 2005, fu una band di cui anche i radar più attenti hanno perso le tracce: i Crimson Massacre. Dato che non sono soltano i capolavori a delineare i confini di un genere, ma anche e, forse, soprattutto quei dischi meno famosi e "imperfetti", la riscoperta di quest'ultimi non può essere altro che un dovere, prima che un semplice "sfizio" da completisti...
La nostra storia è ambientata ad Houston, Texas. Siamo nel 2001, e il chitarrista James Jackson e il batterista Robert VanVeghel frequentano ancora il college quando pensano di formare una band. Le cose, comunque, vanno a rilento, tanto che VanVeghel lascia, sostituito da Scott Horne. In breve tempo, la line-up subisce cambiamenti piuttosto rapidi. Poi, tra il 2002 e il 2003 vengono approntati due demo, comprendente brani tutti destinati (tranne il caso di "The Eternal Gates of Enoch”) ad essere ripresi sul loro primo disco “ufficiale”. Autoprodotto, Temple Of Gore (2003; 62:07) (registrato da un quartetto che, oltre a Jackson ed Horne, comprendeva il cantante Joe "Krullenzith" King e l’altro chitarrista James Harkins) è un lavoro chiaramente ispirato al black-metal scandinavo (basterebbe la sola cover di “I Am The Black Wizards” degli Emperor a confermarlo), anche se non mancano ascendenze di death-metal melodico che rimandano a formazioni quali At The Gates, Sentenced o Dark Tranquillity. E’ un disco acerbo, che mostra dei musicisti ancora alla ricerca di un’identità precisa. Già dall’iniziale “A Midwinter Dream” si comprende quanto la band non sia ancora scesa a patti con la sua ispirazione, procedendo a tentoni tra scream isterico, growl cavernoso e un riffing in tremolo che tende a saturare gli spazi senza molta creatività. Non aiuta, inoltre, l’uso della drum-machine, che appiattisce il tutto con un fastidioso effetto meccanico. Probabilmente, l’assenza delle tastiere, che sul primo demo aggiungevano un tocco di atmosfera tutt’altro che disprezzabile, è un punto a sfavore di un disco che si trascina lungo binari fin troppo scontati, anche se in qualche rarissimo caso (penso, ad esempio a “Enslaved On The Throne Of Chaos”) le due anime della band riescono a trovare un punto di contatto più convincente. Completano il quadro, due tracce catturate dal vivo (“Hill of Skulls” e “The Forest of Lost Souls”), che hanno almeno il pregio di suonare più viscerali e potenti, oltre che più decifrabili, almeno se confrontate con quelle, assordanti e quasi al limite dell’harsh-noise, che erano apparse sul secondo demo, The Gathering.
Lo splendore del pandemonio
In circa quattro anni di attività, i Crimson Massacre avevano ottenuto sostanzialmente pochissimi riscontri, soprattutto perché la qualità della loro musica non era esattamente memorabile, anche se qualche anno fa James Jackson si diceva soddisfatto dei risultati ottenuti con Temple Of Gore. Nella stessa intervista, il chitarrista ci teneva comunque ad aggiungere che proseguire all’interno di quel paradigma sarebbe stato controproducente per le sorti delle band. Messa da parte, quindi, la matrice black-metal, con il conseguente allontanamento del cantante e del secondo chitarrista (che andranno a formare i prescindibilissimi Gates Of Enoch), la line-up (cui nel frattempo si era aggiunto il chitarrista Bill Ledgerwood) fu completata dall’arrivo del cantante Pete Olen. “La mia altra band – ricorda quest’ultimo – era in tour e i Crimson Massacre aprirono per noi a New Orleans. I ragazzi avevano appena iniziato ad abbozzare le prime parti dei brani del loro secondo disco e stavano cercando un cantante. Abbiamo, così, parlato un po’ delle direzioni sonore da intraprendere e, alla fine, mi sono ritrovato a volare in Texas per registrare il tutto”. Ma la prima esperienza di Olen con la sua nuova band fu quella dello split album As The Sun Burns (2004), condiviso con tre formazioni texane. Il raggio d’azione è ancora quello del black-metal scandinavo, declinato con furia barbarica dai Bahimiron (vicini alle tendenze atmosferiche di certo USBM), riletto con vigoroso spirito death dai Funeral Rites (i più convincenti, a dirla tutta) e appiattito su soluzioni “primordiali” dagli Adumus. I Crimson Massacre, invece, vi partecipano con quattro rifacimenti di brani tratti da Temple Of Gore.
Ma sarà solo con The Luster Of Pandemonium (2005; 52:51), anticipato da un demo con quattro brani, che questi “nuovi” Crimson Massacre troveranno finalmente la loro voce. Ricorda Jackson:“Scrivere e registrare quel disco fu per noi davvero qualcosa di magico. Gran parte dei brani nacquero tra la fine del 2003 e i primi mesi del 2004 e il tutto fu registrato nell’autunno successivo. In quella fase, aver suonato dal vivo in alcuni strani posti penso ci abbia aiutato a focalizzare meglio la nostra attenzione sull’idea portante del disco”.
Quanti avevano avuto modo di seguire la band fin dagli esordi, provarono sicuramente un senso di disorientamento quando ascoltarono per la prima volta questo secondo capitolo dei Nostri pubblicato dalla Deathgasm Records. Non più black-metal o melodeath e men che meno ritmiche meccaniche o chitarre stridenti. A loro posto, un vero e proprio “pandemonio” death-metal, estremamente dinamico e all’apparenza indecifrabile. O, ancora, per dirla con le note di copertina, una vera e propria “aural insanity”, accentuata da una produzione probabilmente non all’altezza della situazione (il suono del basso, per esempio, è troppo nascosto nel mix), eppure corresponsabile dell’alto livello di oppressione emotiva e di astrazione “sonica”.
“Penso sia corretto dire che si tratti di un disco meno “meccanico” rispetto a Temple Of Gore, soprattutto da un punto di vista “ritmico”. Tuttavia, dietro il processo di assemblaggio di riff, idee sparse, frammenti armonici, etc., si nasconde ancora un approccio razionale, anche se molto spesso, quasi per incanto, molte trame di chitarra, lunghe e multidimensionali, finivano per amalgamarsi in maniera spontanea, dando vita ad un sound piuttosto organico” (James Jackson). Un approccio che teneva conto soprattutto dei loro ascolti di musica classica e di jazz. Ancora Jackson:”Vi è una predominanza dell’influenza della musica classica nella band. Io personalmente ascolto Bach, Wagner e Vivaldi abbastanza frequentemente e studio le loro idee di arrangiamento; e so che quando Bill Ledgerwood era nella band, anche lui ebbe la stessa infatuazione. Per quanto riguarda il jazz, abbiamo un sacco di frammenti modali o connettori “a ponte” che in parte rimandano ad esso, ma resta il fatto che la gran parte di frasi melodiche che usiamo è ispirata alla musica classica. Per quanto riguarda l’improvvisazione, quando si sta cercando di sviluppare un passaggio, può sicuramente avere la sua importanza. Tuttavia, non mi piace improvvisare troppo”.
Strutturato come un unico flusso sonoro, seppur diviso in 9 tracce, il disco è costruito sulla successione di micro-riff suonati in rapida successione dalle due chitarre, alternando sovrapposizioni simmetriche e improvvisi sfasamenti, spirali frenetiche e frasi armonizzate tanto da generare nell’ascoltatore una sensazione di furore incontrollato. La complessità dell’opera risiede proprio in questa idea guida di generare texture attraverso la sequenza di frasi chitarristiche che si mantengono in bilico tra la generazione di riff e il semplice contrappunto di figure più o meno articolate ed irregolari. Un equilibrio precario, sostenuto da una batteria che, nel bel mezzo della tempesta, mai si appiattisce nella mera riproduzione di un battito ritmico, cercando anzi soluzioni duttili e inconsuete. "Sono affascinato da ciò che viene eseguito al suo livello più alto. Tutto quello che, a volte, viene spinto ai limiti, produce risultati interessanti, indipendentemente dalla disciplina. Ho sempre fatto mio questo modo di fare quando componevo e suonavo" (Scott Horne).
“Nel complesso - aggiunge Olen - l'idea era quella di dare vita ad un caos controllato, che suonasse come se fosse sempre sul punto di crollare da un momento all'altro, restando invece sempre all’interno di determinati confini”. In questo continuo dissidio tra tensione centrifuga e volontà razionalizzante, anche la voce dello stesso Olen – un ibrido tra il growl burrascoso e sferzante di cantanti quali Edgardo Gonzalez (Cenotaph), Tomas "Tompa" Lindberg (At The Gates), Necrolord (Liers In Wait), Oscar Dronjak (Crystal Age) e lo scream luciferino di Pete Helmkamp (Angelcorpse) - segna un altro punto di distacco rispetto al passato della band. “C'è stato uno sforzo cosciente di amalgamare la mia voce con la musica... uno sforzo, insomma, di usare la voce come un altro strumento in più, invece di immaginarla in cima a tutto il resto, come accade nella maggior parte delle band di death-metal”.
Insomma, tutti gli elementi fin qui analizzati, mostrano quanto The Luster Of Pandemonium sia un disco profondamente ambivalente, un edificio sonoro che solo con paziente dedizione si riesce a scalare, riconoscendo barlumi di melodia lì dove apparentemente regna il frastuono della dissonanza, attraversando subissi o riserve di violenza latente con la stessa ansia di decifrazione. Ma la dove c’è ambivalenza, c’è conflitto. E le liriche, scritte dal batterista Scott Horne, riflettono, attraverso i temi della morte di Dio e dell'avvento di un nuovo regno, proprio su questo concetto, già del resto sottolineato dal titolo del disco, in cui ciò che vivifica e chiarisce (la luce irradiante: “luster”) è messo in correlazione con il disordine malefico, restio ad ogni tentativo di decodificazione (“pandemonium” – non a caso, Horne è un grande appassionato di John Milton).
Ma veniamo alla musica. L’iniziale "Catalyst’s Tongue” è caratterizzata da una frastagliata successione di riff, un tourbillon di dissonanze e astrazioni armoniche contrappuntate da blast-beat adrenalinici e da torride scorrerie vocali. E’ un incipit assolutamente programmatico, un manifesto sonoro che rievoca sia gli At The Gates di “The Red In The Sky Is Ours” che i Gorguts di “Obscura” e i Liers In Wait di “Spiritually Uncontrolled Art”. “Conquest” (che fu il primo brano del nuovo corso ad essere scritto) apre a mo’ di uragano battente e procede alieno e deviante, aggrappato al fraseggiare maniacale di Jackson e Ledgerwood, capaci di generare un vero e proprio flusso di fuoco elettrico, in cui la maggioranza dei riff deriva dall'incrocio tra la chitarra ritmica e quella solista, con l'enfasi ad oscillare tra le due. Ancora più complessa, “The Devourer” è un mostro che respira dolore, trascinandosi tra geometrie armoniche sempre più bizzarre, implosioni brutal e strappi melodici, mentre le liriche sembrano voler a tutti i costi trasfigurare in linguaggio parlato il caos che le musica va erigendo secondo dopo secondo:”Maelstrom of wings and fear collide as / the usurpers wade through ranks of the / fallen / hallowed ground fades away under the / march of the dogmatic hordes / swords drawn against impending odds, / hell-bent on reclaiming what was once / lost, / what was taken away, forbidden, for / daring to forge a different vision”. Invece, la solennità galoppante di “Epoch” dipinge la sua drammatica tela lasciando convergere mulinelli discordanti, aspre conflagrazioni strumentali e detour defaticanti, portando in coda il vessillo di un trionfo ambiguo.
Gli undici minuti di “The Hyperborean's Epitaph” costituiscono un vero e proprio coup de théatre, spezzando in due l’enigmatica brutalità del disco con un’immaginifica dissertazione costruita sullo scambio di due chitarre acustiche, che procedono come ipnotizzate fino a tingere la coda di minacciosa elettricità. “Bill Ledgerwood ebbe un enorme impatto nello sviluppo della maggior parte della composizione e dell’arrangiamento di questa traccia – spiega Jackson -, e una volta completata aveva senso posizionarla proprio al centro dell’opera”, quasi a rappresentare, aggiungo, una vera e propria oasi di tregua, un modo per guardare al caos che domina gran parte del disco come da un riparo inattaccabile. A rompere l’incantesimo "iperboreo", arriva il terrificante assalto di “Redemption”, caratterizzato da una velocità d’esecuzione ancora più stordente, che ne fanno quasi una variante grind di quanto ascoltato nella prima parte del disco. Dal canto suo, la title-track è il trionfo di un suono sempre sull’orlo del baratro, un corpo-sonoro in perenne agonia, come quello che si agita oltre il vortice tortuoso di “Sacrifice”. Agonia che liriche sempre più criptiche non possono fare a meno di esasperare:
The second of the first, ascended
as a nova to the morning star
betrayed by the kiss of 30 silver
seraphim,
to assume command of the torn and
tattered,
the luster of Pandemonium faded
a third of the fallen come to profound
enlightenment
to acknowledge the frailty of the
Argument,
to be nothing to none, Lords of the
void.
Su “Of Perverted Hope And Fragmented Suffering”, infine, ascoltiamo alcune delle parti più lente dell’opera. Nei suoi oltre dieci minuti di durata, il brano si spinge ancora oltre in termini di dinamismo e variazioni strutturali. Dopo una prima parte più convulsa, nella seconda la musica si lascia improvvisamente assalire da un raptus decostruttivo, fino all’apoteosi degli ultimi due minuti, vicina ai punti di fuga atmosferici e “totalizzanti” degli Ulcerate a venire.
(13/07/2014)
Demo 2002 (autoprodotto) | ||
Temple Of Gore (2003, autoprodotto) | ||
The Gathering (2003, demo) | ||
To Scale the Throne vs. Crimson Massacre: War of the Cosmic Keys (2004, split album) | ||
As The Sun Burns (2004, split album - Killzone Records) | ||
Demo 2004 (autoprodotto) | ||
The Luster Of Pandemonium (2005, Deathgasm Records) |
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