Fear

Fear

Uno scandalo hardcore

Oltraggiosi, violenti, demenziali, i Fear di Los Angeles hanno contribuito in modo decisivo all'evoluzione dell'hardcore, influenzando band come Pixies e Faith No More

di Tommaso Franci

"I wanna fuck you to death/ piss on your waning grace/ I just wanna come in your face/ I' don't care if you are dead" ("Fresh Flesh"). Così si presentava Lee Ving nel 1982 coi suoi losangelesi Fear che nel manipolo di band hardcore americane dell'epoca (Germs, Circle Jerks, Bad Religion, Bad Brains, Adolescents, Husker Du, Black Flag) erano i meno ortodossi e in definitiva i meno hardcore nonché (ideologicamente parlando) i più punk. Dal punto di vista musicale, i Fear (specularmente anche se più fugacemente di quanto stavano facendo i Minutemen) fecero all'hardcore quello che i Clash avevano fatto al punk. I Fear collocarono il "live fast and die young" sonoro, la velocità e la violenza proprie dell'hardcore, in schemi esecutivi tipici del jazz o del folk. I Fear sono gli unici veri padri dei Faith No More, talora sopravvalutati, divinizzandone il "crossover". I Faith No More hanno copiato i Fear quasi in tutto. I Pixies riprenderanno dai Fear invece solo l'idea della risemantizzazione dell'hardcore, variando e sublimando il modo in cui farla; e la riprenderanno di riflesso, quando se ne erano già avvalsi i Mission of Burma prima e gli Husker Du dopo, iniettando il pop nell'hardcore, concependo tale azione come unica sopravvivenza per il medesimo.

I Fear possono essere considerati come quelle magiche "only one album band" capaci con una sola prova di rivoluzionare o inventare un genere (a livelli diversi): Sex Pistols, Germs, Adolescents, Mission of Burma, Squirrel Bait. Prima di arrivare a questo (di fatto) unico album i losangelesi dovettero fare una bella gavetta: fin dal 1978 almeno. E gli ambienti che battevano erano i più degradati e squallidi che si possano immaginare. Ma il modo per sopravvivere in tale contesto non fu, per i Fear, quello esclusivo dell'opposizione o rivoluzione: i Fear non volevano cambiare le cose; ma, tramite tragico sarcasmo (e questo può essere considerato il loro pregio/difetto), defraudarle di importanza e peso e dunque sopportarle. Da qui la levità canzonatoria della formula jazz, di contro alla seriosità apocalittica hardcore; e da qui anche un certo punk d'evasione, quello cantilenato e consolatorio - come in alcuni brani dei Descendents o anche dei Misfits - rasente la mediocrità. I Fear sono alienati e desolatamente tragici: hanno tuttavia una demenzialità (programmata e dunque finta) che li ha salvati dall'autodistruzione: ed è questa la carta segreta del loro hardcore finto o mascherato.

L'album The Record (Slash, 1982) dei Fear dura 27 minuti e contiene 14 pezzi. Ha 20 anni; ma sembra fatto oggi. Veniamo ai brani più di routine. "Let's have a war" esplode subito in un lisergico sferraglio sostenuto da una voce epicamente teppista, che alterna crescendo di borbottii a voli pindarici in quasi-falsetto. "Beef boloney", dopo un demenziale e zappiano indugiare, attacca all'insegna di uno spedito hardcore-Germs cantilenato e relativamente fine a sé stesso; pur nobilitato da un'impressionante e concentratissima serie di distorsioni chitarristiche. La sezione ritmica è innovativa quasi come fu quella dei Rolling Stones: sincopata, protagonista, metal-jazz.
"New York's alright if you like saxophones" sorvola a giri di sax sull'incivile vita civile metropolitana. Pur innovativa per l'epoca (fa all'hardcore lo stesso servizio che Zappa fece al Merseybeat) si consuma in una certa retoricità. "Gimme some action" è un minuto di missili Circle Jerks, tuttavia non catartici.
"We destroy the family", contrariamente al titolo, è il brano più "tenue" e sperimentale del disco: un tappeto di tribalismo etnico jazzato appena spronato dalla calda, roca, teppistica voce di Lee Ving.
"Disconnected" è il noise Velvet Underground alternato a ripartenze in velocità il cui monito è "fuck religion". "We got to get out of this place" si crogiola in una razionalissima demenzialità alla Captain Beefheart: appare proto-punk. Il passo compiuto in avanti dai Fear è tale proprio in quanto ritorna al proto-punk fine 60: saranno i Faith No More a traghettarlo definitivamente verso una non più implosione, ma esplosione che è il suono grunge anni 90.
"Getting The Brush" indugia in un singhiozzare distorto e atutoreferenziale da collasso cardiaco, requiem o elettrocardiogramma piatto. "No more nothing" è il finale piccolo inno a un meditato nichilismo. La mielosa, profonda, potente e devastata voce di Ving è al servizio di una cantilena conclusiva.
Veniamo ai capolavori. "Camarillo" esplode in un hardcore mediolatino (spezzato da un giro di chitarra lusitana) che si sublima però in un attimo di metodicità commovente a sua volta anticipata da un potentissimo tambureggiare. Un minuto totale.
"I Don't Care About You (Fuck You)" è il testamento spirituale dei Fear e vale per il sostentamento violentemente blues, a tratti con intervalli grunge, dato alla frase manifesto del titolo. "Foreing Policy" è già un brano da piena era Faith No More: ha un suono almeno una decade più in avanti dei contemporanei, schema grunge (piano-forte alternato: precipizio-sospensione). Il gruppo raggiunge alti vertici esecutivi: sembra un ensemble da camera, hardcore però.
"I Love Live In The City" è l'autoreferenziale inno alla devastante vita metropolitana ("people die on the street and I love live in the city"); e questa volta riesce e perfettamente: toccata e fuga, poi galattico assolo chitarristico, infine il ruggito catartico di Ving. "Fresh flesh" è il bestiale, edipico, rituale richiamo allo stato di natura che non è altro che quello di città quand'è degradato: metà hardcore e metà noise.

Nel 1985 uscirà More Beer, nel 1995 Have Another Beer e nel 2001 American Beer, ma ormai il gruppo aveva compiuto la sua missione.

Fear

Discografia

The Record (1982)

8

More Beer (1985)
Have Another Beer (1995)
American Beer (2001)
Pietra miliare
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