Il ciglio di un marciapiede sventrato, in una città dove "lo schifo regna, l'aria puzza di merda e la gente vomita ovunque". Da un angolo spuntano quattro balordi che marciano nella tua direzione: intendono "farti la guerra" e ti informano che "ce ne sono molti come loro". Intorno a te solo "gente che muore per strada", troppo occupata a sopravvivere per poterti soccorrere: la prima parola che ti si stampa in testa non può che essere PAURA.
C'era una volta l'arte della provocazione. Non quella atta a sensibilizzare sulla causa umanitaria o lo sbirro cattivo di turno: stiamo parlando dell'oltraggio fine a sé stesso, liberatorio nella sua gratuita sciocchezza. L'istinto primordiale di chi vuole sfasciare affinché nessuno ricostruisca, molla della vitale superficialità adolescenziale e dei ritornelli scalmanati che seppero darle voce. Prima che apparissero le "riflessioni su" e l'idea che la musica dovesse "educare", le sonorità dure sono state benzina di una teppa spavalda e sgradevole, eppure adorabile in tanta criminale innocenza. La parola d'ordine era spassarsela facendo più danni possibile, piuttosto che abolire qualsivoglia "stato di cose presenti". La rivoluzione ci fu e non poté che essere travolgente, ma la miccia ebbe una scintilla apolitica, antipolitica e anzi reazionaria, vicina a quel "irrazionalismo fascista" che Lukács inquadrò tanto bene. Scorie radioattive da un'epoca non ancora candeggiata dall'odierna smania sterilizzante, in cui la febbre di inclusione ha sostituito l'autoemarginazione orgogliosa e scandalizzare i benpensanti non pare più una priorità. Siamo costretti a spiarlo di nascosto, questo Male che Baudrillard decretò "trasparente". Ci eccita ancora la violenza estrema, ma per soli fini di studio e a patto che rispetti determinate caratteristiche: socialmente determinata, mediatizzabile, non offensiva per nessuno. Non concediamo più sponda a una bestialità relegata in quel mondo rurale da cui germogliarono i semi marci dell'America.
I tipacci inquadrati a inizio articolo sono emanazioni di un ambiente simile, anzi no: Lee Ving ha giocato a lungo con l'immagine del fuorilegge dal passato fosco, ma non ci voleva un detective per scoprire che fosse tutt'altro che incolto e che trapiantando uno studente di sociologia/chitarra jazz tra i punk poteva solo scattare una burla colossale. Bastava un colpo d'occhio: alla diafana androginia dei kids, il Generale Lee (che dei trascorsi nell'esercito li ha avuti per davvero) contrapponeva un fisico maschio e una faccia grinzosa da allevatore di bestiame; agli urletti apatici una vocalità da shouter testosteronico, benché corrotta dalla sguaiatezza lydoniana. L'unico Uomo sulla scena, verrebbe da dire, e lui lo diceva eccome: se capitavi sotto al suo palco non passava troppo tempo che un bel "fag cocksucker" te lo beccavi dritto in fronte.
Donne e omosessuali rimarranno i suoi bersagli prediletti, ma il vero fiore appassito all'occhiello della sua poetica sarà un morboso interesse per il sudiciume suburbano, le deiezioni corporee, i dettagli più squallidi e raccapriccianti: un autentico "culto dello schifo" che affonda le radici nelle ribalderie dello shock rock, se non dello stesso rock'n'roll originario. Condiviso con pochi altri reprobi della scena (i Meatmen di Tesco Vee alias Mr. Touch And Go, i Mentors dell'ignobile Eldon Hoke, i meno conosciuti ma non meno putridi Gynecologists e ovviamente GG Allin), diventerà centrale nel noise-rock più repellente (Butthole Surfers, Laughing Hyenas, in seguito anche Jesus Lizard) e in generi come il brutal death metal o il grindcore (specie nella declinazione gore lanciata dai Carcass e nel turpe operato degli Anal Cunt), mentre sparirà quasi del tutto dal punk (eccezion fatta per i Dwarves, ultimi grandi maniaci del genere), ormai autocondannatosi a musica noiosamente "impegnata".
Eppure sempre di punk stiamo parlando, e portato alle estreme conseguenze: chiassoso, ludico e "scemo", come prescrivevano i Ramones, ma insozzato da una rudezza campagnola che lo trasforma in un'accelerazione del più laido southern rock. Non sorprende che si sia fatto le ossa nella natia Philadelphia come musicista blues, prima di mimetizzarsi fra i teppisti californiani. Punk è anche il tono ironico e demente con cui vengono stemperati certi eccessi/accessi di violenza, ma ricondotto a una scurrilità vomitevolmente virile: traboccante di campanilismo e allusioni sessuali, quella di Ving è una comicità da caserma, greve come può esserlo solo quella di un personaggio mediocre in una situazione malsana. Un'esasperazione che diviene fotografia impietosa, ma anche àncora di salvezza in mezzo al degrado più assoluto: accantonando il lirismo decadente degli X, la sua Città degli Angeli è poco meno che un girone infernale, in cui però i peccatori non vengono puniti ma anzi si aggirano a piede libero. Ancora punk, infine, l'insolubile contraddittorietà dell'operazione: è pressoché impossibile capire se ci è o ci fa. Evocare il peggio non serve a denunciare delle ingiustizie (come teorizzato da Jello Biafra nel suo mercato ortofrutticolo), ma "solo" a generare riprovazione. Alla protesta si preferisce un masochistico compiacimento, unito alla fascinazione metropolitana che fu già dei Velvet Underground: "I Love Living In The City" (meraviglioso gioco di parole con il proprio nome d'arte), dichiara nel devastante primo singolo della sua band.
I Fear esistono dal lontano 1978 e ci mettono poco a costruirsi una reputazione da delinquenti, attaccabrighe e nazisti. Abbiamo citato il punk (musica "semplice") e il blues (musica "tradizionale"), ma le loro canzoni sono le più complesse sulla West Coast: strumentisti di enorme talento, frustati da una delle voci più potenti dell'epoca, biascicando funk e free jazz toccano con mano la coeva no wave; allo stesso tempo, giocherellando con certi cliché metallici, inventano di fatto il crossover. E visto che parliamo pur sempre di hardcore, per quanto spigoloso e atonale, la velocità di esecuzione non può che essere folle: solo i Circle Jerks sono più lesti di loro.
Nel 1981 sono ormai tra le attrazioni più famigerate della città. Penelope Spheeris li incontra mentre attaccano dei manifesti e li vuole nel seminale "The Decline Of Western Civilization": il film spopola e arriva finalmente il contratto discografico. Ancora meglio farà l'amico John Belushi, compagno di sbronze accomunato dalla stessa demenzialità goliardica, che l'anno dopo riesce a ingaggiarli addirittura nello special di Halloween del "Saturday Night Live": lo studio viene raso al suolo da un'orda di mosher (tra cui un giovanissimo Ian MacKaye), lo show viene interrotto in diretta e l'America intera scopre chi sono i Fear. Nessuno vuole più farli esibire, ma in compenso hanno già prenotata una session con la Slash.
Il nome bombolettato sull'asfalto, sul retro la foto segnaletica di quattro ceffi in maschera antigas e un titolo che sta per "testimonianza" ma anche "primato" di efferatezza: ancor prima di metterlo sul piatto, "The Record" si presenta in maniera inequivocabile. Appena cala la puntina, ogni dubbio viene polverizzato: ringhiato a zanne strette in preda a un attacco idrofobo, l'heavy-billy di "Let's Have A War" è ben più minaccioso della sequenza finale del classico di Walter Hill, con quel "We need the space!" non meno tragico del "We are tired of your abuse!" di "Rise Above". Lo sfacciato inno misogino "Beef Bologna" è più subdolo: l'introduzione è una replica di "Mannish Boy" con gli ormoni alle stelle, sciolti in men che non si dica nel corso di una scorribanda supersonica. Altrettanto viscido il sincopato affresco manicomiale di "Camarillo", che sotto la sferza di una chitarra arabeggiante (opera dell'infallibile solista Philo Cramer) fa assaggiare i tormenti dell'internato Charlie Parker.
È invece Ving in persona il narratore della strafottente "I Don’t Care About You", scheggia più genuinamente punk del lotto, con una selvaggia performance di Spit Stix dietro ai tamburi. Dieci anni dopo, i discepoli Guns'n'Roses la riproporranno nel tributo ai loro idoli "The Spaghetti Incident" in medley con "Look At Your Game, Girl" di Charles Manson: mai abbinamento fu più azzeccato. Il massimo trionfo del vetriolo vinghiano è però "New York's Alright If You Like Saxophones": un'autentica presa per i fondelli del punk-jazz tanto in voga nella Grande Mela, cui pure non sarebbe inopportuno accostarli, con tanto di sax martoriato e doppi sensi omofobi. Il primo fatale dissing tra le due coste, a quanto è dato sapere.
Se ci sono due brani che ben inquadrano il limbo stilistico della band, quelli sono "Gimme Some Action" e "Foreign Policy": il primo è una lezione di compattezza dipanata in soli 58 secondi, il secondo una spericolata premonizione post-hardcore, squassante come un anthem dei Fugazi, in cui la perenne farsa si tinge di semiseria polemica antimilitarista. Dall'altro lato della barricata si ergono "We Destroy The Family" e la già citata "I Love Living In The City", portavoci dell'inclinazione metallica (e della ferocia più sadica) del quartetto. Tutte queste influenze paiono accartocciarsi dentro la rabbia antisociale di "Disconnected", la messa in scena di un esaurimento nervoso che in qualche modo contagia anche la stravolta, ossessiva cover di "We Gotta Get Out Of This Place": quella che nell'originale degli Animals era la propositiva corsa verso una terra promessa, qui diventa una drammatica fuga impossibile già destinata al fallimento. Tra le due versioni passa tutta l'incolmabile distanza tra il raggiante ottimismo dei 60 e la rassegnata disperazione degli 80.
La frustrazione viene sfogata nel brano più agghiacciante dei Fear, se non dell'intera storia del punk: "Fresh Flesh" descrive minuziosamente lo smembramento di una prostituta che il protagonista non ha intenzione di pagare, senza lesinare in particolari ("I wanna fuck you to death/ Piss on your waning grace/ I just wanna come in your face/ I don't care if you are dead"). Solo i Type O Negative sono annegati in abissi di amoralità altrettanto insondabili.
Meno brutale ma altrettanto inaccettabile "Getting The Brush", che è invece il verosimile proemio di un altro femminicidio, questa volta da parte di un amante abbandonato. Parlottata dal bassista Derf Scratch, è una risposta condensata a "Shut Down (Annihilation Man)", spazzata via insieme a tutto il resto (dell'umanità) dal perfetto apologo nichilista di "No More Nothing", quasi in odor di Sex Pistols. La versione in cd, più compassionevole, aggiunge a mo' di ultimo pasto il garbato singolo "Fuck Christmas".
Ventisette minuti e 21 secondi sono più che sufficienti per terremotare un genere che si credeva approdato al limite della propria trivialità. Rimarranno ineguagliati, sia fuori che dentro il ranch. Il gruppo sopravviverà il tempo di un altro album ("More Beer", 1985), per poi arenarsi insieme alla scena che lo aveva partorito. In mezzo, una spiazzante apparizione al "Rock Against Reagan", tanto per far saltare ogni plausibile chiave interpretativa. Ving approfondirà la sua passione per il blues e il country, collaborerà con Dave Mustaine e il superfan Dave Grohl e soprattutto coronerà le sue ambizione di attore, recitando anche in "Flashdance" e "Streets Of Fire": quando ti ritrovi una faccia simile non potrebbe andare altrimenti. Resusciterà la sigla a fasi alterne, prima per completare l'esilarante trilogia etilica ("Have Another Beer With Fear" del 1995 e "American Beer" del 2000), poi per una paradossale re-incisione dell'esordio ("The Fear Record", 2012), inutile quanto il remake shot-by-shot di "Psycho" ad opera di Gus Van Sant e, in quanto tale, magnificamente punk. Sotto i suoi ranghi passeranno musicisti di ogni estrazione, dall'alfiere zappiano Scott Thunes a un ancora sconosciuto Flea.
La provocazione becera sarà l'ultimo fuscello a cui appenderci per non perire sull'altare della "cultura del piagnisteo" profetizzata da Robert Hughes? Nel dubbio, prima che ci arrestino tutti, continueremo ad ascoltare "The Record", capolavoro di una band a cui oggi nessuno concederebbe un contratto.
08/11/2020