Cosa lega un'isola al largo delle coste sud-orientali
dell'Australia agli scenari del grande gotico americano, alle sue suggestioni
che si ripropongono periodicamente, inondando la coscienza collettiva? Là, come
nei luoghi più visitati dagli spiriti più lucidi nel decifrare ciò che si agita
dietro le quinte della letteratura (e non solo) americana - dal Maine infestato
di presenze ataviche, con cui la ragione vorrebbe scontrarsi, in un disperato
tentativo di addomesticamento, di Lovecraft, Poe e King al silenzio superumano
delle distese boschive di Twin Peaks - l'uomo occidentale si trova di fronte
una terra di cui non sa ricostruire il passato, un paesaggio intonso di
immensi, taciturni monoliti e indomabili estensioni di deserto immobile. È come
la drammatica, in un certo senso, realizzazione che il pianeta - e, con esso,
l'universo - esiste da prima dell'uomo e ad esso sopravviverà; che, magari,
entità ineffabili e imperiture sottendono al normale corso degli eventi umani.
Parrà strano, ma la musica dei Paradise Motel, gruppo di Hobart, Tasmania,
appunto, porta con sé tutte queste sensazioni, profondamente radicate nella
sensibilità culturale che loro appartiene. La notte australiana, le sue luci
lontane di galassie inarrivabili e di fuochi fatui, è la notte dell'Uomo, è un
tempo e un luogo in cui le sovrastrutture prettamente materiali dell'esistenza
si dissolvono e tutto diventa un intrico di suggestioni ancestrali, ineffabili.
Quanto di oscuro, pensieroso e torbido si dimena in superficie assume così, nei
momenti migliori della band, forme impalpabili che danzano su attraenti abissi
dell'anima, rilucendo del colore, abbacinante, dello stupore. Si dipinge così
il paesaggio, insieme rassicurante e terrorizzante, dell'Ignoto, in cui
risuonano preghiere a dei sconosciuti e incomprensibili reminiscenze.
È quindi un onirismo, quello degli australiani, da non confondere - non del
tutto, perlomeno - con quello, pregno di mitologia e venato di misticismo, dei
Cocteau Twins. Le canzoni dei Paradise Motel non sono delicate incisioni
neoclassiche, sospiri new age, ma
lampi epifanici in un'oscurità quasi aggressiva, incombente, propulse da
movimenti chitarristici incessanti, in uno slow-core tetro ma suggestivo, mai
ripetuto.
Scolpire luci e ombre in una "natura
morta"
Bad light followed all the way
da "Bad Light"
Di chi sono quelle scarpette da sposa infangate che costituiscono la
copertina dell'esordio dei Paradise Motel (Still Life, del 1997)? Sono,
forse, le scarpe di Laura Palmer, le scarpe della parte allo stesso tempo più
innocente e più oscura dell'uomo, attratte morbosamente dall'amore e, per
questo, dalla morte. Il veicolo di questi temi e di queste impressioni, questi
brividi che solleticano pulsioni primordiali, ancora occhieggianti da antri
oscuri del subconscio, è una canzone che diventerà un po' un incubo ricorrente
- comparirà in diverse uscite della band -
nella carriera dei Paradise Motel: "Bad Light".
Facciamo qui conoscenza con la voce della Sussex, una voce impossibile da
attribuire a un essere in carne e ossa: impossibile ricostruire un volto,
associare movenze; l'unica figura possibile è quella di una voce proveniente da qualche buio recesso della
mente, o da spiragli verso altre dimensioni, luoghi di incomprensibile e
ammaliante perdizione, labirinti di drappi rossi, nani danzanti e oscurità
impenetrabili.
Con scelte compositive (l'ossessivo, minuscolo riff di acustica, che si amplifica improvvisamente in boati
d'orrore) e di arrangiamento (il battito secco, tombale di batteria, il
minaccioso insinuarsi di basso), la cui responsabilità risiedeva quasi
interamente nelle mani di Matt Aulich, il chitarrista, i Nostri completano un
capolavoro del nuovo gotico. Eppure, dopo gli scorci vertiginosi di "Bad
Light", è il pop rassicurante e leggiadro di "California", il suo innocente e
incondizionato trasporto sentimentale ("Where are you now?" canta la Sussex con
l'angoscia di una giovinetta in amore), a imporre una dicotomia quasi bizzarra,
nell'espressività dei Nostri.
Niente di inaspettato, in fin dei conti, non è - ancora una volta - che
l'estremizzazione dell'ossessione tutta americana per la lotta fra il bene e il
male, rappresentata in modo estremo, quasi caricaturale (come fosse una
parabola zen), in Twin Peaks e qui riproposta secondo gli stessi canoni. Qui e
non solo: l'alternanza tra luce e ombra diventerà un vero e proprio marchio di
fabbrica della band, nei suoi velati e disturbanti presagi di morte e nei suoi
improvvisi, dirompenti slanci di vita, che si compenetrano, come nell'animo
umano - e come nel finale della celebre serie di Lynch.
Parte di quest'ultimo è certamente da attribuire al fascino indelebile della
ballata à-la Julee Cruise
(indimenticata musa di David Lynch) di "Calling You" e al suo incipit annichilente (i testi del gruppo
sono in genere curati dall'altro chitarrista, Charles Bickford), sussurrato in
un'oscurità immanente, superumana:
Do you remember?
A tiny speck of time
We both were searching
For something that was blind
Il vuoto che si riempie, nel seguito, è un crescendo voluttuoso, è un sogno
in cui si riconoscono i contorni della realtà, pizzicata come le corde del
violino che accompagna la Sussex (che voce!) nel suo refrain, magnificata da piccoli movimenti chitarristici e poderose
folate d'archi. È proprio la voce della Nostra che permette a ballate minimaliste
come "John" di sostenersi, con fugaci accordi di piano a rincorrersi sotto la
sua guida.
Emozioni controllate, ma mai represse, nel corso di Still Life, nei riff accennati ma incombenti di
"Circles", nella pece e nell'acido della dilaniante "Men Who Loved Her",
posseduta da rincorse vertiginose e da una Merida Sussex trasfigurata, fino
all'improvviso (e geniale) cambio di registro finale.
Verso la fine del disco i Nostri assumono toni un po' sopra le righe ("F
Heart"), in processioni dalla ritmica e dall'espressività bizzarramente
sfaldate come quella di "Stones". "La violenza e il silenzio": questo
accostamento, utilizzato dalla band stessa in un'intervista per definire il
proprio approccio, diventerà il loro motto, a richiamare sinteticamente - e un
po' affettatamente a dirla tutta - il loro interesse per le storie nascoste,
per gli aspetti più neri della società occidentale lucidata, smagliante.
"Rotte di volo" verso altri mondi
Grazie al successo ottenuto in casa propria, fin dalle prime pubblicazioni,
l'etichetta locale (Mushroom/Infectious) tenta un primo approccio con il
mercato anglosassone, ripubblicando in Inghilterra l'Ep d'esordio, Left Over
Life To Kill, facendone però una raccolta aggiornata prendendo brani di Still
Life e trasformandolo in un Lp a tutti gli effetti.
Intitolato dall'autobiografia di Caitlin MacManara, vedova di Dylan Thomas, il
disco proposto dalla band sorprendentemente supera Still Life, pur
presentando in larga parte gli stessi pezzi, per uniformità espressiva e
intensità.
L'inizio è il medesimo: "Calling You". Ma, laddove in Still Life si
proseguiva con "California" (traccia qui del tutto abbandonata), lasciando un
senso di traballante ambiguità, qui ci si getta fin da subito tra le maglie
incatramate di "Dead Skin" e "Men Who Loved Her" ("The agony/Will set you
free", e in effetti poi lo fa), in un gorgo di cui non si vede la fine, tra
chitarre violentate e sospiri sornioni di morte, improvvise trasfigurazioni.
La prima novità rispetto a Still Life è, però, la ballata d'archi di "Watch
Illuminum", canto angosciante di un'anima intrappolata da un quartetto di
Beatles zombi - l'effetto contrastante tra il racconto dolente della Sussex,
echeggiato poi da un corno lontano, e il coro incalzante d'archi è a tratti
suggestionante. Tecniche riprese poi in "Desperate Plans", sospiro d'amore un
po' dimesso, che allenta la tensione prima del baratro innominabile di "Bad
Light".
Tracce di pop anni 90 si scorgono infallibilmente, poi, nella bella "German
Girl", con la sua ariosa cavalcata finale, che si conclude in un gelido
abbraccio. C'è tempo però per un'altra grande canzone, prima dei titoli di coda
affidati, ancora una volta, a "Stones": "Ashes". Il suo piccolo cambio
d'accordi traina il pezzo in un penetrante dinamismo, si guada balzando da un
tema chitarristico all'altro, tra abbozzi di crescendo emotivi e il richiamo
lontano di Merida Sussex che non lascia intravedere un possibile finale. Un
finale che si scopre più naturale di quanto si pensasse, un minuscolo riff adagiato su una liberante tregua
emotiva.
La vera "svolta pop" si ha però con Flight Paths (1999). I Paradise Motel
riportano a galla i propri ingredienti in una veste completamente diversa, dopo
i vagabondaggi per acciaierie abbandonate e cimiteri profanati di Left Over
Life To Kill - come se fossero passati dall'altra parte del grande sipario.
Grande collezione di canzoni, più che album vero e proprio, Flight Paths si
affida a una produzione massiccia, un uso degli archi più convenzionale e
diffuso (strabordante, a dire il vero), una costruzione delle canzoni che
allontana il sound della band dagli echi slow-core della prima produzione e li
avvicina a un alternative pop dalle tinte dream,
per il tentativo finale di convincere il pubblico aldilà degli oceani.
Un'estetica decisamente diversa, un vestito che si fa scintillante ma
sintetico, ma ancora grandi canzoni. "Daniel", con le sue intense mareggiate,
il suo sviluppo trionfante, gonfio di sensazioni e impavido; "Heavy Weather",
col suo refrain "This can't last
forever", ammantato della malinconia dei tormentoni estivi e assai ammiccante
al mainstream del tempo, col suo beat di plastica (si veda anche "The
Trees") e gli intermezzi quasi rappati;
per i nostalgici, schegge di antiche passioni rivivono in "Hollywood
Landmines", dal ritornello facilmente riconoscibile ("Knockin' On Heaven's
Door").
Pare insomma che, con Flight Paths, la band le abbia provate tutte per
riuscire e, in effetti, ha messo insieme un'opera che avrebbe ben figurato
nelle hit parade del tempo, più
ispirato anzi di molti potenziali concorrenti. Il pezzo più famoso dei Nostri
rimarrà invece la loro cover di
"Drive", celeberrimo brano dei Cars, contenuta nel disco (curioso, sotto
l'onnipresente coltre violinistica, affidare l'assolo di synth a una fisarmonica).
Acclusi in alcune edizioni del disco sono i Reworkings affidati ad artisti di
grande fama. Da una rumoristica "Lee's Trees" (da Lee Ranaldo dei Sonic Youth),
si procede per una riverberante riproposizione di "Drive", maneggiata dai
Mogwai, fino alla bella riconversione acustica di "Cities", sotto la guida di
Mark Eitzel e all'ancor più riuscita versione alt-folk di "Four Degrees", insieme agli Hefner di Darren Hayman.
Naturalmente prescindibili, ma testimoni di una crescente , anzi consolidata
considerazione dei Nostri negli ambienti della musica alternativa di fine anni
90.
Intorno alla pubblicazione di Flight Paths va così datato il loro trasloco a
Londra, che farà da base per i loro tour europei, di spalla a gente come
Sparklehorse, Mercury Rev e Grandaddy. Qualcosa succede, però: per un anno la
band non registra nuovo materiale e, agli inizi del 2000, si scioglierà. È un
interrogativo pesante quello che colpisce i Paradise Motel, incapaci di farsi
valere al di fuori delle mura domestiche, ma non solo: incapaci di "vedersi"
aldilà dei confini della terra natia, quella terra di orizzonti sconfinati che
ritroveranno insieme, con gioia, solo otto anni dopo.
Il ritorno in Australia: nuova linfa e
il risveglio di vecchi fantasmi
"Tornando
col pensiero a quando smettemmo di suonare insieme: vivevamo a Londra da
qualche anno e tutto andava bene, ma scoprii che avevo esaurito le cose da dire
- sentivo che era il momento di chiudere. In seguito i membri della band si
dedicarono a varie altre cose, io rimasi in Inghilterra per altri otto anni.
Quando tornai in Australia...Tutto ricominciò a parlarmi, ricominciai a sentire
di nuovo le canzoni, la musica. Fu tutto piuttosto naturale, poi: mi bastò
telefonare a un paio dei membri e parlammo delle nostre idee.
Charles Bickford,
"Yourgigs.com.au"
Forse è tutto qua il senso della reunion
del gruppo, che avviene otto anni dopo lo scioglimento. Otto anni in cui
Bickford attraversa peripezie andersoniane,
lavorando come designer e, con maggior successo, come ospite fisso in quiz
televisivo. Sotto l'influsso delle rinnovate suggestioni australiane, i Nostri
si cimentano in un concept dedicato a
una grande storia, di quelle che entrano nell'immaginario popolare, che
dividono le coscienze, che segnano un evento: la morte di Azaria Chamberlain.
Azaria Chamberlain è una bambina di otto anni, scomparsa il 17 agosto del 1980
durante una gita in campeggio alle pendici di Ayers Rock, il celebre monolite
australiano - il suo corpo non fu mai ritrovato. Primo caso televisivo di
cronaca nera in Australia, colpì profondamente, appunto, l'opinione pubblica
quando la storia dei genitori - secondo la quale Azaria era stata portata via
da un dingo - venne disconosciuta e la madre fu condannata all'ergastolo.
Di un'eleganza noir non "ricercata" - si vedano gli Elysian Fields -
ma spontanea, i Paradise Motel impostano la ricostruzione della storia della
loro Laura Palmer (ancora torna l'ossessione bickfordiana per le sparizioni di questi personaggi femminili, che
riappaiono come spettri inafferrabili e bellissimi) su una successione di
canzoni che attraversano piani dimensionali, arricchendosi di dettagli fino a
svilupparsi in mute progressioni strumentali. Chitarre che paiono ripiegarsi su
se stesse cedono il campo al vibrante ardore degli archi, rassicurante coro
funebre. L'iniziale "The Witnesses", morbida nenia che va acquisendo
spazio e risonanza, come un sogno che si fa meno sfocato con l'andar del tempo,
è esemplare nel descrivere tutto ciò: un mistero viene svelato solo per
scoprirne un altro.
Non finisce qui, perchè Australian Ghost Story non è certo un lavoro
involuto, né claustrofobico: sa spesso involarsi con l'afflato lirico di una
band sì esperta, ma non per questo disposta a barattare la propria spinta
artistica con atteggiamenti di maniera. Come nella dolorosa preghiera di
"A Bend In The Terror", in cui Merida Sussex impersona la madre
mentre affida al vento il proprio augurio alla figlia, dalle fredde mura della
propria cella. Miracolo che si perpetua in "Goodwin And The
Jumpsuit", complice un arrangiamento degli archi che non suona mai trattenuto,
ma di una veracità folk che dona un che di vivido al divagare sognante della
Sussex ("Familiar Stranger").
Australian Ghost Story ondeggia in modo spiazzante tra sogno e
coscienza, come nella dolente filastrocca della bella "Brown Snake":
è un disco che ospita senza dubbio il fascino sornione dell'intelligenza
("My Sister In '94"). Si arriva, pienamente conquistati e
soddisfatti, alla conclusione, accesa di fiamme sciamaniche, di "Prelude
To A Saga"; la band pare rivolgersi, nella dolce evocazione finale, non
solo alla protagonista del disco, Azaria, ma a se stessa:
What I can recall of the outside world -
the taste of the bore,
that I my father dug
in exchange for a god .
Now he's settled in,
and this dreaming must end.
My world's in here.
Left Over Life To Kill (Ep, 1996) | ||
Some Deaths Take Forever (Ep, 1996) | ||
Bad Light (Ep, 1996) | ||
(Please Keep Me Safe) (Ep, 1997) | ||
Still Life (1997) | 7 | |
Junk Mail (bonus cd, 1997) | ||
Left Over Life To Kill (1997) | 8 | |
Flight Paths (1999) | 7 | |
Reworkings (1999) | 6 | |
Australian Ghost Story (2010) | 7,5 | |
Ishy Van (I Still Hear Your Voice At Night) (2011) | 6 | |
VIDEO | ||
![]() | Bad Light (da "Still Life" e "Left Over Life To Kill") | |
![]() | Drive (da "Flight Paths") | |
![]() | Watch Illuminum (da "Flight Paths" e "Left Over Life To Kill") | |
![]() | Aeroplanes (da "Flight Paths") | |
![]() | Heavy Weather (da "Flight Paths") | |
![]() | Brown Snake (da "Australian Ghost Story") | |
![]() | The Promise (da "Ishy Van") |
Sito ufficiale | |