DEBRIS HILL – Sidekick (2015, DiNotte)
midwest-emo songwriting
Nel panorama in crescita, un po’ perché non è mai scomparso, almeno in Italia, un po’ perché adesso torna di moda, dell’emo italiano, va segnalato con decisione l’esordio di Michele Zamboni (già chitarrista dei Farglow) e dei suoi (suo?) Debris Hill. Lui sembra schermirsi, come estetica vuole, ma “Sidekick” è un gran disco, non solo per la scrittura, “sottomessa” e nascosta, con la voce che sembra fare capolino tra arpeggi e ricami di acustica ed elettrica, che Michele sa orchestrare sapientemente. Potrebbe essere già detto il Mike Kinsella italiano (grande il richiamo agli American Football di “Inertia”), anche se il suo stile, come per altri “cantautori” emo italiani, è più una resa solista di una band emo al completo (il soft-emo di “Disintegrate”, ad esempio), che un superamento di questa verso un cantautorato che sappia esprimersi con gli stessi strumenti, ma su altri toni (come ad esempio in “Effort”, la traccia più Owen-iana). La mano però c’è già tutta, come dimostra il passo Kozelek-iano dell’iniziale “By The Sea”, e nonostante alcuni brani più telefonati (“Oil”), o più deboli in generale (“I Regard”), che comunque Michele sa tenere a galla con un grande gusto per gli arrangiamenti. Bravo, purtroppo il disco si trova solo in download (per il momento) (Lorenzo Righetto 7/10)
BOSCO – Era (2015, autoprodotto)
songwriting
Disco d’esordio per questo quartetto romano che punta su canzoni di stampo autorale dal suono ampio e dal forte impatto emozionale. Melodie aperte, arrangiamenti strutturati e ariosi allo stesso tempo, con interazioni tra gli strumenti classici, gli archi e i synth, cantato maschile dotato di una certa enfasi corroborata dalla controvoce femminile che in un paio di episodi diventa voce principale. Se la qualità fosse tutta come nelle prime due canzoni, i Bosco si meriterebbero di ottenere un grande successo, senza che a questa espressione debbano essere posti limiti. In questi due brani, ovvero “Il Disertore” e “La Mia Armata” non c’è solo musica per tutti i gusti, capace di catturare l’attenzione di ogni tipo di ascoltatore: questa è musica bella perché ci sono passione, maturità, sensibilità. Il resto del disco si mantiene su livelli più che discreti e esplora con profitto diversi territori musicali, ma certo non si avvicina più al capolavoro come nelle prime due tracce. Va benissimo così per ora: ascoltate questi ragazzi e seguiteli perché hanno fatto un bel disco (Stefano Bartolotta 7/10)
HIC SUNT LEONES – Hic Sunt Leones Ep (2015, Inner Animals)
pop-soul
Ep d’esordio per questo quintetto attivo dal 2012, che punta su un pop morbido con tendenze soul, sia per lo stile melodico, che per il timbro vocale che per l’uso dei fiati. C’è una certa perizia nel mettere assieme i vari elementi sonori, anche con la capacità di includere altri generi, come un pizzico di psichedelia in “Agape” e il doo-wop in “Granny Lunchtime”. Nonostante l’utilizzo di tutti questi elementi retrò, il lavoro suona tremendamente moderno e soprattutto perfettamente a fuoco: la maturità compositiva è sorprendente, con i brani che si sviluppano in modo mai scontato; gli arrangiamenti sono sempre brillanti, il cantato ha dalla sua la giusta espressività. L’unica cosa da migliorare è la pronuncia dell’inglese, ma poco importa. Questi ragazzi hanno stoffa da vendere e meritano di essere seguiti con la massima attenzione (Stefano Bartolotta 7/10)
WONDER VINCENT - Fiori (2015, autoprodotto)
alt-rock
Gli umbri Wonder Vincent (Andrea Spigarelli, Andrea Tocci e Luca Luciani) debuttano con i boogie redneck chiassosi e sgolati di “Amazing Story Of Roller Kostner” (2013). Tutt’altro respiro e impianto ha il successivo “Fiori”, anzitutto nello specifico dei brani. “Io No Italian Head”, il ritornello-fitta urlato tra effetti sonori stoner-blues di “Swag”, Ebony”, “Please”, il singolo “Spoon Rest” e la chiusa di “Hiawatha”, sono tutti deliri di stili a incastro, cliché ben suonati e parole a mo’ di formule. Stilemi industrial-metal introducono e turbano “Post To Me” e “Gelsomino, ma i tre sono maestri anche nelle ballate, grandiosa e inebetita “Fine”, ancor più ampia “Blow”, e persino meditativa e country-desertica “Trampoline Man”. C’è l’indole, quella più genuina dei Faith No More, di assorbire nell’hard-rock le influenze più disparate, per farlo deragliare con calibrata pazzia, soppesando sia la libertà, in licenze spesso sbrigliate, che un equilibrio tra le parti in gioco. Un subdolo eclettismo è al comando: non procedono enfatici per addizioni o per ripetizioni, ma ribadiscono con classe pochi e mirati elementi. Il contro? Passano per ladri - ma professionisti - dei classici del passato (soprattutto anni 90) (Michele Saran 6,5/10)
ALIEN SYNDROME 777 - Outer (2015, Avantgarde)
black metal
Progetto varato dal chitarrista avant-metal Alessandro Rossi, Alien Syndrome 777 supera - in “Outer” – le recenti emanazioni di Bologna Violenta, perlomeno sul piano della drammaturgia. Il bozzetto elettronico di “An Unconscious Reflection”, che evoca un convoglio su rotaie che viaggia inquieto per lande glaciali, il minuto e rotti di detonazioni e voci deformi in “Intermission/Mirrors” e l’acquarello sinistro di “Black Box” per suoni subacquei che mutano in voci tremende e tifoni supersonici accompagnati da un onirico strimpellio, incorniciano e fregiano l’opera con un sofisticato soundpainting. Questo spirito di ricerca sonica si ritrova solo a piccole gocce e fa poca comunella con le varie “Symmetriads”, “Unearthly Reveries Unveiled” (forse la migliore), “To Balance And Last”, eccessivamente epigoniche del metal nordico, ma almeno forgia brevi intermezzi a base di Ebm, di glitch repellenti, di mulinelli di accordi-droni che si smaterializzano in lamenti e orgasmi. Sotto il segno di un maledettismo epico, un disco conciso e distruttivo (ma non troppo) che cerca di coniugare una costruzione ad ampio respiro all’importazione degli stilemi scandinavi. E’ la seconda incarnazione del progetto di Rossi, dopo che la prima (che si concretò solo in un mini del 2009, "AS777") finì per la dipartita dell’allora collaboratore Joey Hopkins, ed è qui un vero complesso: Rossi alle chitarre, Vincent Cassar alle tastiere, Oscar Martin al canto (Michele Saran 6/10)
BARDAMÙ – Le Notti Bianche (2015, Officine Farandula)
songwriting
Secondo disco per questo duo che mostra una ricerca rivolta verso l’eleganza. Un grande lavoro di archi, atmosfere soffuse e notturne, voce e testi che si adattano perfettamente a questo tipo di ambientazioni. Il fascino complessivo del lavoro è innegabile, ma quasi sempre si ha l’impressione che ci sia un’eccessiva attenzione alle atmosfere a discapito della qualità dello scheletro della canzone. L’unico episodio notevole è “La Notte A Milano”, mentre tutti gli altri si lasciano ascoltare ma non colpiscono per qualità di scrittura. Speriamo che in futuro i due riescano a sfruttare con continuità il potenziale che si vede in quella canzone davvero ottima (Stefano Bartolotta 6/10)
ISHAQ - Remedies (2015, autoprodotto)
avant-rock
Breve, compatto, e forse anche meno arzigogolato del predecessore “Innercity”, il secondo parto ufficiale della crew di post-rocker veneti Ishaq, “Remedies”, si fregia anzitutto di spartani arrangiamenti da camera. Fanno così bella vista un paio di elegie, “Bunkajah”, una costruzione di invocazioni e tribalismo su cui spira un vento di concertina e che dà origine a una cantilena flebile e distorta (pur non così rifinita), e l’analoga “Five Years Ago”, per percussioni rituali, pianoforte, violino e voci di sirene. In “Coward” e “Clouds” gli strumentisti assumono le sembianze anche più dotte di un ensemble minimalista, che però male si accordano a una melodia povera e a una facile grandiosità. Sulla stessa linea è “Reawaken”, pur con un’intuizione in più: un’altalena tra uno statico tintinnio delle tastiere, adornato di canto angelico, e un infernale muro di suono in fortissimo. Questi tre brani sono il giusto esempio della parte molla del disco, una cantante monotona e poco dotata che non insuffla sentimento. Le percussioni convintamente militaresche sono diventate icona del loro sound. Il gioiello è comunque un pezzo strumentale afferente al post-rock più noto, la commovente trascendenza che irrora “Elijah”, perfetto attestato della padronanza armonica del complesso. Prodotto da Tobin James Stewart, mixato da David Mackinnon a Toronto (Michele Saran 6/10)
LIMONE – Secondo Limone (2015, Dischi Soviet Studio)
pop, songwriting
Secondo disco per questo cantautore che punta sulla classica proposta molto pop con l’attitudine da songwriter. Una cosa che si è già ascoltata tantissime volte, direte, e in effetti queste canzoni non si distinguono troppo rispetto ai canoni base del genere. C’è da dire, però, che è fatto tutto piuttosto bene: le melodie, il suono, il cantato e i testi sono di discreta fattura e leggerezza e disincanto non significano certo mancanza di consistenza. C’è anche una discreta varietà nel disco, con la chitarra elettrica, quella acustica, il pianoforte e l’elettronica che si alternano bene nel ruolo di primattori. Il problema di un lavoro come questo è la longevità: quante volte farà venir voglia di essere ascoltato? Probabilmente non più di due o tre (Stefano Bartolotta 6/10).
JUNE AND THE WELL - Gudiya (2015, Waterslide)
emo
Fondati dal salentino Luigi Selleri, il supergruppo dei June And The Well (membri di Miles Apart, Sprinzi e Tante Anna) debutta con un omonimo “June And The Well” (2013), all’insegna di un emo-pop che ha anche svisate di ballad folk (“Boiling Over”, “Il respiro di ogni cosa”). Il secondo “Gudiya”, dall’umile breve durata, per metà dimostra uno scarso senso melodico, cosicché le varie “Francis” e “Fountains” girano un po’ a vuoto. Il complesso però ricalibra il tiro per tre piccole bombe in sequenza: il tocco sereno della title track, con un canto alla Doug Martsch e lo strimpellio progressivo che la proietta in accelerazione, una ancor più articolata e solenne “From The Ashes Of Your Heart”, e un indovinato refrain angelico in “S-low”, grazie all’apporto di Matilde Davoli. Finanziato tramite campagna Musicraiser, edito dalla Waterslide Records di Tokyo, un competente e sincero concept di dedica a una bimba indiana, Gudiya, vittima di violenze in madrepatria (Michele Saran 6/10)
NREC - Signals (2015, Musicacruda)
electro
L’highlight del debutto del progetto NREC, “Signals”, a cura del producer marchigiano Enrico Tiberi, è più di tutti la ballata pop-wave “Dust”, fantasmagorica e nevrotica, con vocals incagnite alla David Thomas. Ancora eleganti sono il trip-hop “Eyedressed”, pur nella sua vacua oleografia, e una ticchettante “Still” che profuma di flamenco e Peter Gabriel. Se non c’azzeccasse nulla con il resto, ci sarebbe da aggiungere anche la tenebrosa cantata per voci e pianoforte di “Dig Deeper”. Ciò che rimane è un insieme di numeri che vanno dallo scadente (uno spento techno-pop come “Fino in fondo”, un soul da classifica come “Don’t Know Where I’m”) all’imbarazzante (il rozzo Daft Punk-ismo di “Videodrome”). Oltre al danno c’è anche la beffa della confusione di generi, sottogeneri e sotto-sottogeneri, e un canto in fastidioso switching inglese-italiano. Diversi ospiti, ma il vero tuttofare è Daniele Strappato, versatile alla voce (meno come autore di testi) (Michele Saran 5/10)